Settimana Santa. In auto si entra senza fermarsi per il gate controllato da poliziotti. Siamo noti. Ma gli edifici, cioè le prigioni del Penitenziario Regionale di Amas, Kidapawan, non sono subito lì. Bisogna percorrere ancora un paio di chilometri per una stradina asfaltata che si snoda in mezzo a una foresta di alberi di mogano. Sembra un enorme parco. E uno pensa: guarda un po’ dove hanno sistemato i detenuti. In mezzo alla natura. Ma poi la strada finisce e appaiono le due realtà. A sinistra il padiglione dove sono detenute le donne, circa 120 e più in là a 200 metri quello degli uomini, 1400 circa. Arrivo con Peter (Geremia) e gli ultrafedeli appartenenti al Divine Mercy fondato da Sister Kowalska che regolarmente sono là ogni domenica a fare apostolato. La messa nel reparto uomini, alle 4 nel caldo pomeriggio, si celebra in un capannone retto su pali di ferro con un tetto di soffitto di compensato qua e là rovinato e di color pistacchio. Circa 200 detenuti stretti uno contro l’altro. In maggioranza cattolici, indossano t-shirt gialli con la scritta del Penitenziario Regionale. Ma non tutti indossano quella prescritta dal regolamento che comunque deve essere rigorosamente gialla anche se magari con su stampato il logo di Superman o Adidas o Ghostbuster o altro. Con grande meraviglia tutti 200 cantano e il chitarrista è troppo bravo per rimanere in prigione. Poi dopo la messa subito a giocare a pallacanestro. Loro. Il carcere non è mai un posto dove riposarsi, così dicono. Oltre il campo un reparto speciale dove abitano quelli che hanno contratto tubercolosi e AIDS; un centinaio in attesa di togliere il disturbo, in fondo hanno già abdicato al peso della vita reclusa. Una buona notizia invece aleggia tra le magliette gialle: una ventina dei 1400, più o meno sani, andranno a casa fra giorni. Forse prima di Pasqua.
All’entrata del reparto femminile, andiamo là con Peter (Geremia) per le confessioni, incontriamo una madre detenuta che può ritornare a casa. Peter domanda dopo quanto tempo: 12 anni. Felice in fondo perché la figlia dodicenne non l’aveva dimenticata ed era venuta per l’occasione ad abbracciarla. Divine Mercy ramo femminile conduce un seminar a circa 50 detenute. Il messaggio è semplice: Dio ci ama, anche voi, tutti. Riconosciamo che la Sua misericordia è più grande dei nostri peccati, riceviamola con fiducia e trasmettiamola agli altri, così tutte possiamo condividere la sua gioia. Si sono confessate tutte, e tutte piangendo, tutte sincere nello spiegare i loro sbagli. Hanno percepito quanto loro stesse hanno usato male quella libertà della quale disponevano. Tutte tra i 25 e 35 anni, con figli piccoli che le aspettano, ma non tutti i mariti che in buona parte le hanno lasciate per altre donne. Tutte coinvolte nel traffico della droga. Tutte sperano di uscire presto.
L’incarcerazione tuttavia sembra oggi diventata una forma di controllo sociale. Sempre di più in queste prigioni regionali, come in Amas, sono detenute persone che non hanno commesso crimini contro altre persone, ma semmai contro le cose oppure sono state trovate in possesso di refurtiva o di droga. La guerra alla droga è poi lo slogan dell’attuale governo, ma sembra servire solo come strumento per controllare, incolpando, le minoranze e le classi più povere. Del resto l’uso di sostanze stupefacenti tra le persone benestanti viene tacitamente permesso e se colte nel fatto queste persone evitano il carcere pagando giudici amici o le costose spese processuali cosa che gli altri non possono permettersi allungando così la loro permanenza in prigione.
La maggioranza di questi detenuti e detenute provengono da situazioni di grande disagio. Il carcere può far peggiorarne questo disagio (e a volte fa solo questo), oppure, se gestito con criterio, diventare un valido elemento di temporanea fuoriuscita dall’ambiente patologicamente anomalo in cui si sono trovati. Già ma poi là ci dovranno ritornare. Allora? Per Divine Mercy tutto è molto chiaro: identificare la propria vita in Cristo, morto e risorto, e da questo momento si ha la libertà di fare tutto ciò che si vuole senza distruggere niente dell’ordine del mondo. Bisogna dare loro ragione.