Oggi ricordiamo padre Salvatore Carzedda, ucciso nella città di Zamboanga nel 1992. È nato a Bitti, Sardegna, un villaggio di intellettuali e pastori che sorge a 549 metri di altitudine e oggi conta poco meno di 3700 abitanti. Noi, del PIME nelle Filippine, chiamavano Salvatore, scherzosamente, ‘bocca d’oro’ perché parlava molto, ma anche per la sua voce, chiara, forte e splendente. Era il prodotto di un’antica tradizione “bittiana”, quando i ragazzi all’età di 12 anni iniziavano a lavorare sulle corde vocali e sull’abilità di modularle per poi diventare ‘tenori’. Già tenori. Più avanti negli anni, già adulti, venivano messi insieme secondo le loro capacità vocali, ma poi solo quattro di loro venivano scelti. Quattro voci con tonalità diverse chiamate: Contra, Basso, Boke e Meaoke.
L’armonia di questo coro di quattro, o quartetto, inizia nella scelta dell’esatto contrappeso delle qualità timbriche del Contra e del Basso; un timbro Basso profondo e ombroso deve essere affiancato a un Contra metallico e, al contrario, se il timbro del Contra è cavo deve essere affiancato ad un Basso sonoro. Gli altri due elementi del quartetto sono il Boke e il Meaoke: il primo è il solista, la voce bella, che deve declamare chiaramente i versi, il secondo ha il compito di guidare e adornare il suono prodotto sia dal Basso che dal Contra con la propria voce, ma in modo discreto quasi da sottofondo.
Nel Movimento per il Dialogo Interreligioso, comunemente chiamato “Silsilah”, organizzazione non governativa con sede a Zamboanga City, Salvatore aveva trovato una sua configurazione. Era il “boke” con l’amico Sebastiano come “meaoke” e intorno a loro le “due voci” diverse, contrabbasso e contra, mai contente di contendersi lo spazio e il tempo a loro concesso , di cristiani e musulmani. Una metafora del dialogo: voci diverse alla ricerca di un’armonia tra valori tradizionali, religiosi e culturali. Non per oltrepassarsi, ma per arrivare a una migliore sintonia in una reciproca attenzione dell’altro. Un dialogo a molte voci enunciato sulle labbra di persone che, nel rispetto reciproco, vogliono essere libere di narrare le proprie storie e, come nel caso del Silsilah, elevare le stesse invocazioni e canti al Dio unico e comune.
Quando qualcuno chiese a Salvatore cosa stesse facendo a Zamboanga, lui disse: “Siamo qui non per convertirci o convertire, ma per scoprire la presenza di Dio dentro di noi (cristiani, musulmani e indigeni) e poi lavorare assieme per la totale liberazione dell’umanità”. Scelta davvero difficile. Oggi il dialogo tra religioni diverse, o tradizionalmente indigene, resta difficile. Il fondamentalismo radicalizzato ha corrotto le tonalità vocali e pochi leader che fanno della fede il loro impegno, non solo religioso, si impegnano (come fece Salvatore) a arrotondare e addolcire la durezza delle loro voci per una comprensione più armoniosa e stabile delle parole sacre e umane. Una configurazione difficile oggigiorno se le voci che fingono di parlare agli altri sono solo rumori assordanti che provengono dalla bocca dei cannoni.
Mentre cantano, i Tenori di Bitti si mettono in cerchio, faccia a faccia, le braccia intrecciate con le mani giunte nascoste dietro la schiena. Un’immagine non violenta di un accordo raggiunto nel rispetto delle parti. Questo è ciò che molti vorrebbero vedere e sentire nella realtà odierna: un canto armonioso eseguito da diverse voci che unisce i cuori di chi, con trepidazione, ascolta e attende la pace.