Il sistema di credenze preispanico dei filippini consisteva in un pantheon di dei, spiriti, creature e uomini che proteggevano i ruscelli, i campi, gli alberi, le montagne, le foreste e le case. Tuttavia, Bathala, che creò la terra e l’uomo, era superiore a questi dèi e spiriti. Il grande Bathala dimora in Kaluwalhatian (nella Gloria o Paradiso) insieme alle divinità minori. Tuttavia comanda anche sugli anitos (spiriti degli antenati considerati dei/dee secondari) di assistere la vita quotidiana di ogni nativo. L’anima (kaluluwa) di una persona diventa un anito (fantasma o essere etereo) dopo la morte per servire Bathala e intercedere a favore dei vivi. Quindi “BAT HA LA”: la teoria conclusiva sulla paleografia dell’antico alfabeto tagalog/filippino, di antichi graffiti su canne di bambù, rivela che la prima lettera (Ba), simboleggia la donna, e la terza lettera (La), l’uomo, unite dalla lettera (Ha) che significa Luce, Spirito o simbolo di Dio stesso.
Per placare le divinità di questo mondo soprannaturale di spiriti venivano offerti regolari sacrifici e preghiere. Alcuni di questi spiriti erano benevoli, altri malevoli. Le immagini scolpite in legno e metallo cercavano di dare una forma agli spiriti atavici e nel loro uso simbolico la distinzione tra spirito e materia spariva: quella immagine aveva un tremendo potere per non morire, far morire o morire bene. La ricompensa o la punizione dopo la morte per un nativo dipendeva dal comportamento in questa vita e da cosa aveva rivelato lo sciamano che avendo un potere sul soprannaturale e sul naturale veniva automaticamente elevato a un posto di prominenza nella società. Ogni villaggio aveva i suoi sacerdoti che usavano i loro talenti in modo competitivo e seguivano a puntino i rituali tramandati vocalmente da generazioni. Molti di questi sciamani erano famosi per la loro capacità di manipolare gli ’anting-anting’ incantesimi che garantivano a coloro che li richiedevano di essere invincibili. Altri stregoni offrivano pozioni ‘amorose’ a coloro che volevano attirare verso se l’altro sesso o producevano amuleti per rendere invisibili. Incantesimi che sono rimasti nella penombra del substrato religioso (sia islamico che cristiano) e fantastico odierno.
Infatti, su questa antica religiosità indigena furono introdotte due religioni ‘straniere’ l’Islam, subito dopo il XII secolo, e il Cristianesimo, 300 anni più tardi, dando inizio a un processo di adattamento e sintesi culturale che è ancora in evoluzione. La Spagna introdusse il cristianesimo nelle Filippine nel 1565 con l’arrivo di Miguel Lopez de Legaspi. In precedenza, a partire dal 1350, l’Islam si era diffuso verso nord dall’Indonesia nell’arcipelago filippino. Quando gli spagnoli arrivarono nel XVI secolo, l’Islam si era saldamente stabilito nel sud dell’arcipelago, nelle isole di Mindanao e Sulu, ma aveva anche avamposti nell’isola centrale di Cebu (Visaya) e a Manila nel nord (Luzon). Al momento dell’arrivo degli spagnoli la cultura islamica era la più sofisticata e se avesse avuto più tempo probabilmente avrebbe unificato l’intero arcipelago. Cavalcando la allora tradizione storica di espellere gli ebrei e i Moros [Mori] dalla Spagna, cioè l’impegno a eliminare tutti i non cristiani, Legaspi disperse rapidamente i musulmani da Luzon e dalle isole Visaya dando via al processo di cristianizzazione.
Nei tre secoli successivi il dominio spagnolo sui musulmani di Mindanao e Sulu non fu mai completato. Anche durante quello americano, dopo il 1905, i musulmani non furono mai completamente pacificati. A tutt’ora vi è una forte resistenza all’integrazione nazionale da parte di ampi segmenti della popolazione musulmana. Molti di loro ritengono, per giusta causa, che l’integrazione sarebbe un genocidio culturale e psicologico. Per molti anni il Fronte di Liberazione Nazionale Moro fino agli attuali movimenti più radicali e fondamentalisti hanno portato avanti una guerra di secessione contro i vari governi che si sono alternati nelle Filippine, in particolare dal 1968, pochi anni prima della imposizione della legge marziale del presidente Marcos.
Mentre l’Islam era contenuto nelle isole meridionali, la Spagna conquistò e diffuse nel resto delle isole un cristianesimo di matrice spagnola. Gli spagnoli raramente dovettero ricorrere alla forza militare per convertire. L’impressionante esibizione di sfarzo, di abiti clericali, immagini, preghiere ed elaborate liturgie attirò ben presto la popolazione rurale alla nuova fede. Per proteggere poi la popolazione locale dalle razzie compiute da bande islamiche alla ricerca di schiavi, gruppi di famiglie furono raccolte in “debajo de las companas” (sotto le campane), nei pueblo o poblacion comunità architettate dai conquistatori spagnoli secondo modelli già usati in America Latina. Una configurazione evidente ancora adesso nelle moderne città filippine a maggioranza cristiana. Questi pueblos avevano dei leader con autorità sia civile che ecclesiastica; il potere dominante era nelle mani del parroco. La chiesa, situata su una piazza centrale, divenne il luogo della vita quotidiana. Messe, confessioni, battesimi, funerali, matrimoni, scandivano le routine quotidiane. Il calendario liturgico scandiva il ritmo della vita pubblica. Vicino alle mura della chiesa sorsero inoltre mercati e aree per il combattimenti tra galli. In questi luoghi gli abitanti del villaggio si scambiavano pettegolezzi e merci; trovavano “riduzione e liberazione sotto il campanile”.
I risultati di 500 anni di cattolicesimo sono stati contrastanti, vanno da una profonda fede teologica da parte dell’élite istruita a una fede più superficiale da parte delle masse rurali e urbane. Quest’ultima è comunemente indicata come cristianesimo popolare filippino, che ha gettato una patina superficiale sul monoteismo e sul dogma cristiano con la presenza, tutt’ora negli animi della gente, dell’antico sincretismo animista indigeno. Può manifestarsi tra i contadini che cercano benedizioni religiose per le loro sementi di riso prima della piantagione oppure nel posizionare una croce di bambù all’angolo di una risaia per prevenire i danni degli insetti e dei topi. Può anche assumere la forma di un abile guaritore, albularyo, babaylan o manghihilot che usa simboli romano-cattolici e liturgie in latino mescolati a rituali preispanici.
Quando gli Stati Uniti ‘comprarono’ le Filippine nella prima metà del secolo scorso, le giustificazioni per la colonizzazione erano la cristianizzazione e la democratizzazione del paese, anche se Mark Twain ne dava una versione diversa: ” We have gone there to conquer, not to redeem,” In ogni caso, la sensazione era che questi obiettivi potessero essere raggiunti solo attraverso l’istruzione di massa (fino ad allora l’istruzione era riservata a una piccola élite). La maggior parte degli insegnanti che arrivarono dall’America nelle Filippine erano protestanti, molti erano persino ministri protestanti. C’era un forte pregiudizio, tra alcuni di questi insegnanti, verso i cattolici. Poiché questo gruppo protestante ha istituito e controllato il sistema di istruzione pubblica nelle Filippine, durante il periodo coloniale, ha ovviamente esercitato una forte influenza tra i nuovi letterati e leader politici filippini. Successivamente, però, il peso della bilancia si è spostato verso una educazione maggiormente influenzata dalla religione cattolica e dalle sue scuole e università.
Durante il periodo della ribellione armata contro la Spagna, era stata organizzata una chiesa nazionalista guidata dal vescovo “cattolico” Gregorio Aglipay, che poi fu nominato “Capo Spirituale della Nazione Armata” con poteri politici. La nuova chiesa attecchì rapidamente in tutto l’arcipelago, soprattutto là dove le popolazioni erano in combutta con gli stranieri considerati invasori. Le conseguenze furo disastrose per la chiesa cattolica; molti vescovi spagnoli dovettero rimpatriare, altri furono deposti o arrestati e le proprietà confiscate e consegnate agli Aglipayani. Nei primi decenni del XX secolo il numero degli Aglipayani raggiunse il 33% dell’intera popolazione filippina. Oggi, sono il 4 % raggruppati nella “Philippine Independent Church”, associata alla Chiesa Episcopale Protestante degli Stati Uniti e ultimamente alla chiesa anglicana d’Inghilterra. Un’altra setta cristiana dinamica e nazionalista è l’lglesia ni Kristo (INC), nata intorno al 1914 e fondata da Felix Manolo Ysagun. Dopo gli Aglipayani e l’Iglesia ni Kristo, c’è stata una proliferazione di sette rizaliste, che rivendicavano come santo l’eroe martire del nazionalismo filippino, Jose B. Rizal, venerato come il secondo figlio di Dio. ma anche reincarnazione di Cristo. Gli stessi leader di queste sette spesso affermano, ancora oggi, di essere reincarnazioni di Rizal o di altri eroi carismatici. Affermano, in parte copiando il credo islamico, che l’apocalisse è per i non credenti e che si può trovare la salvezza e il paradiso unendosi alle loro chiese. Questi gruppi spaziano dai Colorum, nati negli anni ’20 e ’30, ai sofisticati P.B.M.A. (Associazione Missionaria Benevola filippina, guidata da Ruben Ecleo) al fenomeno mediatico di questi anni del Pastore Apollo Quiboloy, ‘amico’ di Rodrigo Duterte, (che afferma di essere “il Figlio unto da Dio”). La dirigenza di queste sette fa parte della media ed alta borghesia, ma la maggior parte di coloro che vengono attratti dai loro culti è gente semplice e povera, attratta dal carisma dei loro leader locali ma anche dalle proposte di lavoro che queste sette generano attraverso piccoli business. Molte volte sono famiglie mandate via dalle loro terre e dislocate in altri siti con la forza. Altre volte si sono sentiti alienati dalla chiesa cattolica che era la religione nella quale erano cresciuti sin da piccoli.
L’attuale sfida al predominio della chiesa cattolica viene quindi da una varietà di denominazioni cristiane ben organizzate, da gruppi fondamentalisti, come i Testimoni di Geova e gli Avventisti del Settimo Giorno, ai membri dell’lglesia ni Kristo (INC), ai Rizalisti e alla galassia dei gruppi carismatici. C’è da dire che i membri delle singole famiglie sono ancora molto numerosi. Una famiglia numerosa significa avere più fedeli in chiesa. Inoltre l’ampia rete costituita dalle famiglie filippine in clan di parenti è vantaggiosa per la crescita di ogni tipo di credo. Amplificando poi il tutto con virtù prettamente filippine come hiya, (vergogna) pakikisama (farsi compagnia) e utang na loob (debito di gratitudine), convertire i propri cari e gli amici diventa abbastanza semplice. Oggi sarebbe stato più efficace se i primi missionari spagnoli avessero considerato di relazionarsi meglio con la cultura filippina, invece di affidarsi alla dottrina critica, come metodo di evangelizzazione.
La chiesa cattolica soffre ancora per la mancanza di personale (il rapporto tra preti e fedeli è molto basso). Tuttavia, le organizzazioni laicali e le comunità di base nelle zone rurali si sono moltiplicate. Il clero, ora completamente filippino, partecipa attivamente nei programmi orientati all’azione sociale e alla difesa dei diritti umani tra i poveri delle aree rurali e urbane. In molti casi queste attività hanno portato ad attriti con il governo filippino, con conseguenti accuse di sovversione e di ingerenze nell’agenda politica del paese. Anche minacce: in questi ultimi anni, per esempio, la chiesa ha criticato la sanguinosa guerra alla droga del governo che ha provocato migliaia di inutili morti tanto che il vescovo Pablo Virgilio David di Kalookan, MetroManila, ha ricevuto minacce di morte. Tuttavia, nella “lotta per le anime dei poveri e dei giusti” questo può essere un sacrificio necessario.
Infine quello che è rimasto delle credenze pre-ispaniche si sta lentamente consumando negli anni. Forse un ottimistico 2% le pratica ancora, più che altro tra le popolazioni indigene che vivono in zone remote nelle isole di Luzon, Palawan e Mindanao dove terra e identità sono ancora una cosa sola. Comunque, in un clima di globalizzazione, informazione mediatica e di generale disinteressamento, sono destinate a estinguersi portando con loro anche un certo numero di lingue, racconti mitici e culture. Forse risorgeranno. Ma solo come genius loci di un metaverso.