Giuseppe Pirola, sj
Nel 1492 Cristoforo Colombo scopre l’America, nel 1496 Vasco de Gama arriva a Goa, nel 1542 naufraghi portoghesi sbarcano in Giappone. Nel 1540 Francesco Saverio parte per Goa, dove arriva nel 1542. Nel 1549 arriva in Giappone e il 3 dicembre 1552, a soli 46 anni, muore alle soglie della Cina. Egli è l’iniziatore dell’opera missionaria dei gesuiti in Asia; la sua missione sarà continuata da noti confratelli come Alessandro Valignano, Roberto De Nobili, Matteo Ricci, e molti altri meno noti. L’idea della missione è però di Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti che, alla luce della sua spiritualità, trasmessa all’ordine, essenzialmente e non aggiuntivamente missionaria, seppe discernere nell’evento storico della scoperta del Nuovo Mondo un segno dei tempi e la chiamata dello Spirito Santo a seguire il Cristo nel compimento della missione di annuncio e realizzazione del Regno di Dio destinato a tutti gli uomini. Vi è qui l’emergere di un significato di missione nuovo rispetto a quello precedente dell’andare a predicare la fede cristiana agli infedeli fuori dai confini europei.
Una spia di questa novità è data dal fatto che Ignazio inviò contemporaneamente in missione Saverio nelle Indie orientali appena scoperte e Pietro Favre nei Paesi europei passati all’eresia luterana. La divisione fedeli-infedeli, europei cristiani-extraeuropei non ancora cristiani perde ogni rilevanza per la nozione di missione, e acquisisce un nuovo senso radicalmente diverso. Missione è un compito pertinente al venire del regno di Dio, non definito da luoghi, ma da eventi storici che sono i punti di incrocio tra storia umana e venire del regno escatologico di Dio, indagati e compresi mediante il discernimento dello Spirito e della sua chiamata.
Francesco Saverio è figlio di questa spiritualità di Ignazio. Egli, scrive Ignazio, fu «la creta più ribelle che mi fosse capitato di plasmare». Lo plasmò con gli Esercizi Spirituali, che sono la fonte della spiritualità ignaziana e gesuitica, una spiritualità missionaria strettamente aderente al Vangelo e al suo nucleo centrale: il Regno escatologico di Dio, oggetto primo della missione del Cristo. Francesco fu l’ultimo dei compagni parigini di Ignazio a fare gli esercizi spirituali, dopo tante resistenze, l’ultimo ad apprendere quella spiritualità.
Gli esercizi trascrivono in modo esemplare e fecondo per tutti l’esperienza di conversione di Ignazio, che da piccolo cavaliere di un re terreno volle divenire cavaliere di Cristo e del suo Regno. Non è una conversione minima da una vita peccaminosa a una vita cristiana onesta; è una conversione al Regno conseguita mediante il discernimento delle mozioni interiori dello Spirito Santo.
Questa spiritualità missionaria evangelica faticò inizialmente a tradursi in una pratica precisa. Dopo la sua conversione Ignazio visse, si suole dire, da pellegrino. E da pellegrini vissero i suoi compagni che da Parigi lo raggiunsero in Veneto. Ma che cosa vuol dire pellegrino? Che vivevano pellegrinando di santuario in santuario, o che Ignazio fece un pellegrinaggio in Terra Santa, dopo il primo a Montserrat, in attesa di condurvi i suoi stessi compagni? Ma quelli furono gli unici pellegrinaggi che Ignazio fece prima del 1540, anno in cui nasce a Roma la Compagnia di Gesù. Nei luoghi in cui visse dopo la sua conversione, a Manresa o ad Alcalà, a Parigi o in Veneto, non consta che facesse pellegrinaggi. Viveva da povero alla soglia di un’abbazia, pregava, mendicava il suo tozzo di pane, o si metteva in cammino e cercava di ayudar a las almas che occasionalmente incontrava. L’equivoco è stato dissolto dal padre Michel de Certeau che scrive nell’edizione da lui curata del Memoriale di Favre: «Il pellegrinaggio o peregrinazione è per i primi gesuiti una forma non solo molto frequente ma fondamentale della loro vita apostolica: mediante questi viaggi i novizi imparano a praticare il loro nuovo “modo di vita”. La peregrinazione ignaziana, in un tempo in cui i pellegrinaggi erano molto numerosi, non è soltanto il viaggio di penitenza e di devozione a un santuario rinomato. È il viaggio apostolico, il viaggio dei caminantes apostolicos. Il pellegrino è l’apostolo itinerante. Ed è anche il nome che Ignazio si dà nell’autobiografia, intitolata appunto Il racconto del pellegrino» (Pierre Favre, Mémorial, Collection Christus n. 4, Desclée de Brouwer, Parigi 1960).
Bisogna distinguere dunque anzitutto tra pellegrinaggio e itineranza apostolica. Poi Ignazio mutò parere circa la missione: anziché esercitarla in Palestina, Ignazio decise con i suoi compagni di andare a Roma e mettersi a disposizione del papa per quelle missioni o compiti che egli volesse affidare loro. Ignazio supera una nozione di missione legata a una imitazione letterale del Cristo, senza però lasciar cadere lo stile di vita missionaria dell’itinerante. Il luogo della missione non è più la Palestina, ma il mondo intero; la missione è quella della Chiesa universale per il Regno a servizio degli uomini, di cui il papa è il capo. È questo lo stile di vita apostolica cui Saverio sarà fedele per tutta la sua vita nelle Indie orientali: l’itineranza evangelica. Si noti la novità implicita in questa decisione: il campo della missione è il mondo intero; l’autorità nella Chiesa, il papa, è definita missionariamente: non è il capo di un’istituzione, ma della missione universale che Cristo ha affidato alla Chiesa; e la missione resta un compito storicamente variabile, che si discerne discernendo negli eventi storici i segni della chiamata dello Spirito.
La missione del Saverio nel sud-est asiatico e in Giappone riunisce dunque in unità questi due motivi: stile di vita o sequela di Cristo nella vita apostolica e fedeltà alla missione universale del regno di Dio a servizio degli uomini in unione amorosa con la Trinità e il Cristo, per amore, da esercitarsi sotto la guida dello Spirito e in comunione con il papa.
Francesco Saverio ci consegna una duplice eredità. Non una teologia missionaria in prima battuta, una teoria dogmatica della missione; ma una spiritualità missionaria nella quale lo stile di vita si accompagna alla riflessione, in un circolo preciso tra vita e pensiero teologico. Al tempo di Saverio la teologia dogmatica non era affatto separata da quella ascetica e mistica. Chiamerei questa teologia, in mancanza d’altro, «ortoprassia missionaria», per la quale hanno rilevanza decisiva gli eventi storici, le differenze sociali, culturali, politiche degli uomini cui il Regno di Dio è destinato; perché è lì che lo Spirito lascia discernere la sua chiamata a una missione storicamente determinata. E in secondo luogo, un’ortoprassia che non divenga anch’essa un trattato sistematico concluso, ma resti una teologia in progress, come chi la pratica, los caminantes apostolicos, itineranti, anche mentalmente.