Il 24 dicembre ero a Igbangcal C ( nello stesso barrio ci sono altre due cappelle A e B ) per la festa di quella piccola comunità montana: la Festa di Santa Lucia. Lucia, lei, Luciano, io, già la ‘luce’, pensavo. Festa in un luogo dove non c’è la luce elettrica. E la luce della fede? La vedo in una grande croce di legno, ricordo della predicazione dei Redentoristi per il Giubileo. Porta due date, inizio e fine della ‘missione popolare’: 11 novembre – 15 dicembre 2000. “L’inizio o la fine di un tempo di preghiera e riflessione. Ma i confini sono sempre da superare, pensavo. Verso dove sto andando? Qual è la meta finale? Siamo forse destinati a sparire nel nulla? Se avessimo saputo tre anni prima…… avrebbe avuto un senso quello che abbiamo vissuto o dobbiamo ritenerlo frutto del caso? Gli eventi che si susseguono – recentemente più di 200 persone sono morte travolte da montagne di fango nell’isola di Leyte, Filippine, le migliaia di vittime a causa di guerre e terremoti – mettono a dura prova le nostre certezze. Solo la fede ci fa intravedere nel trascorrere degli anni una, pur distante, luce di speranza. Per la gente di Igbangcal C tutto è chiaro: Dio è là che ci aspetta e Santa Lucia farà di tutto per illuminare il cammino futuro e la valle sottostante!
Eppure qualcosa rode dentro. Durante la feste molti si ubriacano. Alcuni si insultano e si picchiano per mandare giù l’amarezza delle sconfitte, dei problemi personali, economici e familiari. La ‘religione’, molte volte, ‘pretende’ di dare una sicura risposta, usando sacerdoti, santi e patroni, per destare speranza nel futuro. Quasi siano loro le uniche sentinelle che hanno l’autorità di scandire il ritmo del tempo. La gente meno preparata e più povera non ha molte altre scelte, si ‘fidano’ di noi preti ma più ancora del ‘Fato’: “Vi crediamo perché non sappiamo essere padroni della nostra esistenza. E nemmeno dell’anima! Sarà quel che sarà!”, dicono i più sottomessi. E’ tra questa gente fatalista e disillusa che religioni più ambiziose trovano nuovi adepti mettendo nelle loro mani, e nella loro mente, il ‘potere’ di cambiare il destino della storia. Li fanno diventare kamikaze, bombe umane e super-uomini per cambiare il mondo in nome di Dio e senza.
I tribali di questo luogo dove mi trovo, gli ATI o Aetas, non hanno un futuro promettente. Non hanno mai iniziato una battaglia, eppure basta una bottiglia di rum per renderli violenti come tanti altri. La miseria si alimenta di alcol e così le autorità civili ne favoriscono la vendita, e per guadagnarci sopra, tassandola. Ne incoraggiano la propaganda in TV e su grandi cartelloni pubblicitari. Tra kamikaze e ubriachi ci dovrebbe stare in mezzo qualcuno che illumini e sappia governare. In nome del bene. Ma sono rari.
L’annuncio della ‘buona novella’ si è forse nutrita di qualcosa di improponibile quando non ha più ritenuto i poveri soggetti attivi della vita. Della volontà positiva di Gesù di creare, di progettare un mondo diverso. Abbiamo esaltato e ritualizzato la ricchezza della ‘trascendenza’ che solo chi è nel benessere economico può permettersi. Invece il ‘baratro’ (il ‘nulla’ e la bottiglia di rum che si para di fronte al povero in attesa di intravedere una luce, che dura da millenni anche nella terra in cui è nato Gesù), va colmato di speranza se vogliamo evitare disinteresse ed estremismo. Se c’è una fede questa ci dice di rischiare e di gettare un ponte nello spazio tra una data certa e una meta incerta, senza far morire Dio e l’uomo. Solo la fede può immergersi nel fatalismo dei più poveri, resi oggetti di speculazione religiosa, e dichiarare la loro liberazione.
Ma dare un ‘volto’ al nulla è un’impresa. Santi e grandi missionari ci sono riusciti. Mentre erano in vita. Penso anche con l’aiuto dello Spirito Santo. Ma sono passati. Se poi guardo in di me, vedo un fede povera di gesti e contenuti evangelici. Nonostante questo non mi arrendo e cerco di dare un senso al futuro che mi si para davanti condividendo esperienze con chi da tempo è seduto su un remoto e frantumabile crinale. Sono poveri che sanno scherzare sul nulla e sui pericoli delle tenebre. Un terreno fatto di antiche credenze dove la mia lontana e straniera fede cerca di indicare una via. Una ipotetica luce di candela accesa anni fa quando diventai prete e missionario. Più banalmente, però, mi fido del faro della moto (che mi porta in queste mattine oscure, durante la novena di Natale, verso le comunità montane di questa parrocchia di Dao, in Antique). Una luce che qualcuno già riconosce. Come le date su una croce e quelle di S.Lucia. Spero indichino, date e faro, anche un cammino di speranza a chi ne manca.