Missionario del Pime, padre Stefano vive in un’area degradata alla periferia di Manila. Il suo lavoro non segue programmi: cresce lentamente come la fede della sua comunità è un’umanità disgregata quella di cui si occupa padre Stefano Mosca nella parrocchia di Santa Cruz a Tanza, periferia della città di Navotas nell’area metropolitana di Manila, dove in diversi barangay, i quartieri locali, vivono almeno 35 mila persone. «Si tratta di poveri migrati dall’isola di Mindanao che i sacerdoti locali non riescono a raggiungere – racconta il missionario brianzolo, nominato lo scorso marzo superiore della regione Sud Pacifico del Pime -. I preti devono celebrare fino a sette Messe la domenica e una marea di altre funzioni durante la settimana», per cui il vescovo Pablo Virgilio David della diocesi di Kalookan ha chiesto a padre Mosca e a un altro sacerdote del Pime, padre Robert Ngairi, di aprire delle “stazioni missionarie” per prendersi cura dei poveri, ammassati in case popolari del governo (chiamate pabahay) e abitazioni abusive, che sorgono a nord della città metropolitana di Manila. «Circa 2 mila famiglie risiedono in appartamenti minuscoli, composti da una stanza di due metri per tre. A volte ci abitano anche 8-10 persone. All’interno si trovano di solito una cucina, un divano e la tv, e un soppalco di compensato dove si dorme». Altre 300 famiglie vivono in palafitte sull’acqua, dove i tetti di lamiera si intrecciano ai fili scoperti della corrente, mentre il governo ha previsto la costruzione di un’altra pabahay composta da circa 1.800 appartamenti. «Significa che in pochi anni ci ritroveremo con il doppio delle famiglie», spiega padre Stefano.
Per raggiungere la popolazione ha dato avvio a un programma di alimentazione per i bambini: tre giorni a settimana i due missionari, aiutati dai volontari, trasportano su un carretto tre grossi pentoloni e distribuiscono una merenda a base di cioccolata, riso e latte a circa 200 bambini. «A volte la fila sembra non finire mai e siamo costretti a dire che torneremo il giorno dopo – racconta il missionario -. Ma questo è un modo per entrare in contatto con le famiglie, che non sono abituate a vedere i preti senza paramenti».
I funerali si celebrano in strada e anche la Messa è itinerante: padre Stefano ha comprato un tendone e di volta in volta lo monta in un posto diverso, senza un vero e proprio programma, perché la missione di Tanza, come i suoi abitanti, vive alla giornata: «I genitori escono alle quattro del mattino e tornano alle nove di sera. Vanno a Navotas, che conta 350 mila abitanti, a vendere frutta, verdura, dolci, oggetti di elettronica. Altri svolgono lavori di manovalanza nelle barche, pescano di notte e fanno altri lavoretti sulle imbarcazioni. I bambini, invece, vanno a scuola in due turni e le classi sono da 70 studenti perché ci sono solo una scuola elementare e una scuola media. Sono pochi i benestanti che possono permettersi di attraversare il fiume e frequentare gli istituti privati della città», prosegue padre Mosca. Quando non vanno a lezione i bambini cercano tra la spazzatura le lattine e gli oggetti in plastica da rivendere per racimolare qualche soldino. Anche padre Stefano, quando lascia fuori casa la spazzatura per la raccolta differenziata, si premura di mettere in bella vista il sacco della plastica e delle lattine, sicuro che non sia il Comune a raccoglierlo. «I migranti arrivati qui hanno lasciato una famiglia e spesso ne hanno costituita un’altra. Si sentono sradicati e dislocati e non esiste un vero senso di comunità. I sacramenti sono difficili da amministrare e molti non sanno nemmeno se hanno ricevuto il battesimo, ma noi ci prendiamo cura di tutti senza giudicare».
A volte anche gli eventi spiacevoli possono essere occasione d’incontro, racconta padre Stefano: «Poco tempo fa è morto di infarto un giovane volontario di 22 anni di nome Iron. Non mancava mai ai programmi di alimentazione».
Quando il missionario è andato a trovare la famiglia, i genitori hanno chiesto al sacerdote di benedire ogni cosa che apparteneva al ragazzo, convinti che la sua morte fosse stata causata da uno spirito maligno, e gli hanno mostrato un foglio su cui Iron aveva programmato la sua vita anno per anno: «Nel 2023 si sarebbe laureato, nel 2024 avrebbe comprato una casa e nel 2025 avrebbe guadagnato un milione di pesos, secondo i suoi piani». Ma i piani di Dio erano diversi: «Ho provato a spiegare alla famiglia che Iron ora, anche se non ha una casa propria, ha una stanza in paradiso. Quasi ogni giorno camminava per due chilometri per raggiungere la stazione missionaria e darci una mano con le merende per i bambini». Da quel momento i genitori e gli altri parenti si sono presentati a Messa ogni domenica, evento che non si era mai verificato prima. «Per noi missionari basta esserci, poi le occasioni per iniziare il cammino di fede si presentano».
Una fede che nella baraccopoli non è ancora matura, anche se in tutte le case ci sono statue della Madonna o del Nazareno Nero: «Quando ci vedono ci chiedono di benedire qualunque cosa, quasi fossimo maghi o santoni. Mi ricordano l’episodio del Vangelo della donna emorroissa che per guarire tocca il mantello di Gesù. Ecco, qui le persone sentono il bisogno di toccare con mano statue e cimeli perché faticano a immaginare che Gesù sia vivo anche in mezzo a noi». Per i poveri di Tanza il pane è per lo stomaco, ma diventerà pane per l’Eucaristia, padre Stefano ne è convinto. Al momento, però, visto il bisogno degli abitanti di toccare con mano la fede, ogni settimana il sacerdote affida a una famiglia diversa una statuetta della Madonna dei poveri (Our Lady of the Poor) a cui è consacrata la comunità: «Ogni lunedì facciamo una riflessione sul Vangelo del giorno, prendiamo la statua e la portiamo a un’altra famiglia». Ogni occasione è buona per incontrare la gente di Tanza.
Dopo un anno di “paziente” attesa, alla fine di maggio 2021 sono potuto rientrare nelle Filippine, e dal 1° luglio successivo sono nella mia nuova missione, a Lakewood (Zamboanga del Sur, diocesi di Ipil). Praticamente, sono ritornato nella diocesi che mi ha accolto più di 20 anni fa al mio primo arrivo. Per grazia di Dio, non sono arrivato da solo. Mi fa compagnia, e ci aiutiamo a vicenda, padre “Boboy”, alias Romeo Catan, un confratello del Pime filippino col quale avevo studiato in seminario a Monza. Dopo essere stato in Guinea Bissau e in Brasile, ha chiesto di poter rimanere due anni qui nelle Filippine e con gioia ho accolto la proposta che fossimo insieme.
Il nome del luogo, Lakewood, letteralmente significa “Lago e foresta”. (ndr. In realtà il nome si rifà a Leonard Wood 1860 –1927 che “scoprì” il lago quando nel 1903 si recò nelle Filippine, dove servì come governatore della provincia di Moro in Mindanao fino al 1906) Devo dire che solo il nome descrive bene la località. Siamo infatti affacciati su un bel lago circondato di colline, montagne e quindi foreste. Spesso mi viene spontaneo chiamarlo “paradiso”. Siamo l’ultima parrocchia a nord della diocesi di Ipil (appartenente alla provincia Zambo Sibugay). Qui è stata fondata negli anni ’80 la parrocchia Maria Regina degli Apostoli. Del territorio parrocchiale fanno parte 13 comunità. Se penso che in Arakan ne avevo 63 da visitare, devo dire che questa è relativamente contenuta. Anche le distanze non sono esagerate. La più vicina è a 3 km, mentre la più lontana è a 17 km. Con questi numeri e queste distanze, essendo due preti, possiamo celebrare la messa domenicale una volta al mese in tutte le comunità.
Qui a Lakewood ci sono 2 ostelli, uno per ragazzi e uno per le ragazze che ospitano in tutto 60 studenti delle scuole medie e superiori. Questi ragazzi vivono in villaggi dove non è ancora presente e operante la scuola media, per cui devono spostarsi. La “Bording house”, così viene chiamato l’ostello, non è un albergo. Gli studenti fanno vita comune, per alcuni è la prima esperienza fuori dalla famiglia; si rende necessaria l’applicazione di regole che favoriscano la serena convivenza tra provenienze diverse, per cultura, lingua e fede. Anche noi preti abbiamo il nostro ruolo in questa delicata (per l’età) fase educativa. Oltre alle “Bording house” esiste anche una scuola professionale, avviata nel 2016 e chiusa per il Covid nel 2020. In questa scuola venivano offerti corsi per saldatori, elettricisti, idraulici, meccanici, cuochi, sarti, tecnici di computer e scuola guida. Purtroppo, l’unico corso sopravvissuto è quello della scuola guida che regolarmente vede iscritti 25 provetti “driver” a ogni corso. Il Covid ci ha “rubato” gli studenti e soprattutto gli insegnanti. Vedremo nei prossimi mesi se e come far ripartire qualche corso in più.
Un capitolo (prioritario) che ho cercato di mantenere vivo e attivo (o da riattivare!), riguarda la parte formativa che dedichiamo ai nostri collaboratori quali ministri dell’Eucaristia, catechisti, pastorale della famiglia, pastorale dei giovani, pastorale delle comunità tribali, dialogo interreligioso con altre Chiese, pastorale dei migranti, pastorale della terza età, pastorale per la pace, la giustizia e l’integrità del creato. Di fronte a queste realtà e necessità, cerchiamo di dare dei momenti formativi regolari, in cui si possa avere la possibilità di approfondire tematiche specifiche e camminare insieme come Chiesa, (vedi il Sinodo). Finora, devo dire che la partecipazione è buona come pure l’interesse a crescere come persone a servizio degli altri.
Oggi ricordiamo padre Salvatore Carzedda, ucciso nella città di Zamboanga nel 1992. È nato a Bitti, Sardegna, un villaggio di intellettuali e pastori che sorge a 549 metri di altitudine e oggi conta poco meno di 3700 abitanti. Noi, del PIME nelle Filippine, chiamavano Salvatore, scherzosamente, ‘bocca d’oro’ perché parlava molto, ma anche per la sua voce, chiara, forte e splendente. Era il prodotto di un’antica tradizione “bittiana”, quando i ragazzi all’età di 12 anni iniziavano a lavorare sulle corde vocali e sull’abilità di modularle per poi diventare ‘tenori’. Già tenori. Più avanti negli anni, già adulti, venivano messi insieme secondo le loro capacità vocali, ma poi solo quattro di loro venivano scelti. Quattro voci con tonalità diverse chiamate: Contra, Basso, Boke e Meaoke.
L’armonia di questo coro di quattro, o quartetto, inizia nella scelta dell’esatto contrappeso delle qualità timbriche del Contra e del Basso; un timbro Basso profondo e ombroso deve essere affiancato a un Contra metallico e, al contrario, se il timbro del Contra è cavo deve essere affiancato ad un Basso sonoro. Gli altri due elementi del quartetto sono il Boke e il Meaoke: il primo è il solista, la voce bella, che deve declamare chiaramente i versi, il secondo ha il compito di guidare e adornare il suono prodotto sia dal Basso che dal Contra con la propria voce, ma in modo discreto quasi da sottofondo.
Nel Movimento per il Dialogo Interreligioso, comunemente chiamato “Silsilah”, organizzazione non governativa con sede a Zamboanga City, Salvatore aveva trovato una sua configurazione. Era il “boke” con l’amico Sebastiano come “meaoke” e intorno a loro le “due voci” diverse, contrabbasso e contra, mai contente di contendersi lo spazio e il tempo a loro concesso , di cristiani e musulmani. Una metafora del dialogo: voci diverse alla ricerca di un’armonia tra valori tradizionali, religiosi e culturali. Non per oltrepassarsi, ma per arrivare a una migliore sintonia in una reciproca attenzione dell’altro. Un dialogo a molte voci enunciato sulle labbra di persone che, nel rispetto reciproco, vogliono essere libere di narrare le proprie storie e, come nel caso del Silsilah, elevare le stesse invocazioni e canti al Dio unico e comune.
Quando qualcuno chiese a Salvatore cosa stesse facendo a Zamboanga, lui disse: “Siamo qui non per convertirci o convertire, ma per scoprire la presenza di Dio dentro di noi (cristiani, musulmani e indigeni) e poi lavorare assieme per la totale liberazione dell’umanità”. Scelta davvero difficile. Oggi il dialogo tra religioni diverse, o tradizionalmente indigene, resta difficile. Il fondamentalismo radicalizzato ha corrotto le tonalità vocali e pochi leader che fanno della fede il loro impegno, non solo religioso, si impegnano (come fece Salvatore) a arrotondare e addolcire la durezza delle loro voci per una comprensione più armoniosa e stabile delle parole sacre e umane. Una configurazione difficile oggigiorno se le voci che fingono di parlare agli altri sono solo rumori assordanti che provengono dalla bocca dei cannoni.
Mentre cantano, i Tenori di Bitti si mettono in cerchio, faccia a faccia, le braccia intrecciate con le mani giunte nascoste dietro la schiena. Un’immagine non violenta di un accordo raggiunto nel rispetto delle parti. Questo è ciò che molti vorrebbero vedere e sentire nella realtà odierna: un canto armonioso eseguito da diverse voci che unisce i cuori di chi, con trepidazione, ascolta e attende la pace.
The PIME Fathers in the Philippines have a new Regional Council: Regional Superior Fr. Stefano MOSCA, Vice Superior Fr. Biplob Lazarus MOLLICK and First Councillor Fr. Simone CAELLI.
Uno. (Con un foglio in mano) Eccomi! Guarda il nuovo logo del PIME.
Un altro. Un cerchio?
Uno. Una vela stilizzata racchiusa in un cerchio. La metteremo sopra ogni nostro documento.
Un altro. Molto elegante, minimalista direi. Ma credevo che i tuoi gusti fossero diversi.
Uno. Diciamo che è un incrocio tra passato e futuro: una riproduzione moderna del vecchio logo, quello della vela cinese. Un cerchio che in fondo racchiude tutto il PIME (in scala ridotta, of course!) che naviga nel mondo.
Un altro. E che cosa c’è di speciale? Anche il vecchio logo rappresentava il PIME.
Uno. Che c’entra? Il cerchio, il globo capisci? Chi ha disegnato questo logo è un artista. Ha realizzato molti loghi. Questo è stato fatto con Photoshop. Ma ne ha fatto anche altri a forma di trapezio, triangolo e quadrato.
Un altro. Perché il PIME dovrebbe avere una forma geometrica?
Uno. Prego?
Un altro. Come puoi credere alla storia che un logo perché circolare racchiuda il PIME? L’artista ti ha compresso una vela cinese in un cerchio e basta. La vecchia vela nascosta libera di navigare è affondata dentro una forma geometrica.
Uno. Scusa, ma secondo te le intenzioni dell’artista non contano nulla?
Un altro. Anche riconoscendo le intenzioni dell’autore, il logo è nella migliore delle ipotesi, em, diciamo, incompleto.
Uno. A me sembra completo. Guarda che bel cerchio pulito con vela stilizzata. E mi emoziona l’idea che rappresenti il PIME.
Un altro. Vediamo. Quali parti all’interno di questo logo indicano il PIME?
Uno. Fammi pensare….
Un altro. Te lo dico io. Nessuna.
Un terzo. Posso? (Avvicinandosi ai due)
Uno. Prego!
Un terzo. Hai dimenticato il foglio illustrativo del logo. Te lo leggo “Il presente logo rotondo contiene una vela cinese e quattro punti bianchi che rappresentano la Croce del Sud. Questa è la mia opera, intitolata Omaggio ai missionari del PIME”.
Un altro. E bravo il nostro artista minimalista. Ma… ho sentito bene? La croce del Sud?
Uno. Effettivamente.
Un terzo. Immagino che sia simbolicamente la meta, quella a Sud, preferita dai missionari.
Uno. Ma certo! In questo modo il logo li coinvolge. Quest’autore mi piace sempre di più.
Un altro. Ma se per caso il logo non fronteggia il Sud? Se il tuo logo venisse messo un po’ di sbieco, perderebbe significato.
Un terzo. Esatto! Il logo nel suo significato recondito esiste soltanto quando i quattro punti vengono rivolti a Sud.
Uno. Recondito? Forte! È davvero ingegnoso. La vela ogni tanto esiste e quando non esiste basta ruotarla verso la giusta rotta.
Un altro. Ma sarà lo stesso logo, o un altro? Voglio dire, quando la croce del Sud nel cerchio fronteggia il Sud è un logo in omaggio ai missionari, ma quando la croce del Sud del logo fronteggia il Nord cos’è?
Un terzo. Qui non c’è scritto niente.
Uno. Se l’artista non dice nulla in proposito, siamo liberi di decidere. Anche questo mi pare un aspetto molto originale.
Un altro. Già e tuttavia il significato è in un certo senso prigioniero nella direzione obbligata indicata dalla barca: a Sud, come a …. Itaca, se ti pare.
Uno. Cioè solo da Nord a Sud e non viceversa?
Un altro. Direi di sì.
Uno. Um!? Che ne dici allora di una differenza di grado senza il senso unico? Anche un cerchio completamente rosso potrebbe contenere lo spirito del navigatore missionario: chissà come lo avrebbe realizzato Kandinsky?
Un altro. Già. Vedo un interessante spunto per un artista minimalista magari più speculativo.
Un terzo. Logo logos, direi! (ripiegando il foglio in quattro)
Padre Fausto Tentorio (a sinistra) e padre Luciano
Padre Luciano arriva nelle Filippine nel 1978 e viene assegnato prima ad Ayala, Zamboanga City, ma poi nel 1980 si trasferisce nell’Arakan Valley, Prelatura di Kidapawan, al centro della grande isola di Mindanao. Con p. Sandro Bauducci si accampa a GreenFields abitando per un anno nella casa di una catechista della nuova parrocchia o missione. Nuova nel vero senso della parola perché non c’era ancora un nucleo abitativo, eccetto qualche capanna di poveri contadini, nemmeno corrente elettrica o acqua potabile, ma con una cinquantina di cappelle, o Comunità di Base, da visitare sulle montagne a piedi e a cavallo, su pendii scoscesi che franavano giù verso i fiumi a valle. Rimase celebre il suo modo di attraversare i fiumi in piena: mettendo, zaino e oggetti religiosi avvolti da cellophane sulla testa. Qualche anno dopo con l’arrivo di p.Bruno Vanin si trasferisce definitivamente nella casa di un leader della missione, il sig. Gil Lastica, che abitava a Doroluman, un grosso centro della missione distante cinque chilometri da Greenfields, condividendo per anni la vita di quella famiglia, dormendo sul pavimento di assi e curando il territorio nord-est della missione. Una famiglia che negli anni, anche quando lascerà definitivamente le Filippine per il Messico, lo ricorderà sempre con molto affetto. Dalla parlata in dialetto locale molto fluente, i più anziani in Arakan ricordano ancora padre Luciano mentre predicava in mezzo alla chiesa, come alto, con pochi capelli e la barba rassomigliante a quella di Sean Connery. Dopo l’uccisione di p.Tullio Favali prese il suo posto a Tulunan, a circa 120 chilometri più a sud dall’Arakan. In quegli anni dovette affrontare, assieme a p.Peter Geremia, don Colago, un prete di Tulunan, e due suore domenicane della scuola cattolica di quella municipalità, un processo con l’accusa di rapimento di minorenne, un processo più che altro mediatico e diffamatorio verso l’atteggiamento critico della chiesa della Diocesi verso la presenza opprimente dei militari e politici locali. Dopo quattro settimane, con confinamento obbligatorio nella ABC-Hall del municipio di Makilala, il processo si concluse con la piena assoluzione di tutti gli imputati. Passato questo spiacevole evento, padre Luciano rientrerà in Italia per un servizio al Pime per poi partire per gli Stati Uniti con l’obiettivo di iniziare una nuova missione in Messico.
Insieme a padre Graziano Rota, di Bergamo, progetteranno la nuova missione di Cuanaxatitlàn tra i Mixtekos nello stato del Guerrero del Messico. Negli ultimi anni era rientrato in Italia residente alla casa del Pime a Sotto il Monte ed era molto attivo tra i giovani nella sua parrocchia di Cernusco (ottobre missionario). Alla fine gennaio aveva sofferto la perdita di Renata, la sorella più giovane della sua famiglia composta da altri due fratelli e altrettante sorelle. “Commovente era stata la sua omelia celebrata nella chiesa di San Giuseppe (Cernusco) una delle ultime pronunciate in città anche a causa della successiva emergenza sanitaria” (lamartesana).
«La città di Manila non è tra le più colpite a livello mondiale dal coronavirus ma le restrizioni attivate per evitare il contagio stanno creando un’emergenza nell’emergenza, quella della fame, sempre più diffusa con il passare delle settimane». Il racconto arriva da padre Simone Caelli, missionario del Pime a Paranaque, nell’estrema periferia della capitale filippina.
La città di Manila è in totale lockdown per il coronavirus fino al 15 maggio. Ad oggi nel Paese si contano 11.086 contagi e 726 morti, ma i tamponi effettuati sono ancora pochi, secondo il missionario, ed è difficile sapere quanti tra gli effettivi contagiati siano stati testati. «La città ha più di 12 milioni di abitanti – ci racconta padre Simone -, molti dei quali vivono in una situazione di estrema povertà e non è facile per loro stare a casa perché una casa non ce l’hanno. La vita qui si svolge normalmente all’aperto, le popolazioni degli slum non hanno un conto in banca ma vivono della paga giornaliera che ora manca e pertanto non possono comprarsi neanche il cibo. C’è da dire che qui ci sono anche molti migranti interni, tante persone non sono registrate all’anagrafe, non hanno un certificato di nascita e pertanto per le istituzioni non esistono».
In soccorso dei più poveri sono intervenute numerose realtà. A partire dal governo, che ha cercato di distribuire aiuti alle famiglie, sebbene questo si scontri con la lentezza della macchina burocratica. Prezioso anche il supporto di Caritas, che ha distribuito nel Paese circa venti milioni di euro in buoni spesa. «Grazie agli aiuti della Caritas di Manila, che ha contattato la nostra e altre parrocchie della città, abbiamo potuto aiutare circa 1.500 persone – sottolinea il missionario del Pime -. Ma anche noi come parrocchia ci siamo attivati: abbiamo lanciato una raccolta fondi attraverso i nostri canali social ed ho ricevuto sostegno anche da un confratello del Pime che vive a Hong Kong e dal Pime di Milano. Con i soldi è stato possibile comprare sacchi di riso e beni essenziali a lunga scadenza, che abbiamo confezionato in pacchi e distribuito a oltre 6.000 famiglie in difficoltà»
Un segno di tangibile e concreta solidarietà, che ha riscosso un ampio successo sui social. «Le piattaforme social sono la nuova frontiera per comunicare la missione. Spendiamo molto tempo sul web, soprattutto in questo momento del lockdown, quindi ho utilizzato questa opportunità per sensibilizzare i cittadini alla raccolta fondi. In questo modo ci è anche possibile evitare assembramenti perché le persone bisognose ci contattano attraverso Facebook. La loro richiesta ci arriva tramite messaggio, forniscono nome e indirizzo e in questo modo è possibile recapitare il pacco direttamente a casa».
«Ma i social sono anche un modo per dare continuità alle attività pastorali – conclude padre Simone -. Fin dall’inizio della pandemia abbiamo attivato un media team, chiedendo a tre nostri studenti di risiedere in parrocchia per aiutarci nelle attività di comunicazione. Così è possibile trasmettere la messa in diretta streaming e devo dire che i parrocchiani sono molto felici di questa opportunità. I ragazzi svolgono un servizio prezioso e questo è modo per noi e loro di rimanere in contatto, un’occasione per sentirsi ancora più vicini alla gente».
Tra i nuovi missionari del Pime anche il giovane Catan, cresciuto in una famiglia ad alta vocazione missionaria (lo sono anche uno zio, un fratello e una sorella). Dagli studi resi possibili da un’adozione a distanza al prossimo servizio d’animazione nella casa dell’Istituto a Treviso
«Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo». È questa frase del capitolo quarto della prima lettera di Giovanni, il brano della Scrittura che i nuovi missionari del Pime del 2020 hanno scelto per la loro ordinazione. Ed è un amore che si incarna sempre in una rete di relazioni concrete, come racconta bene – per esempio – la storia di Fel Catan, candidato al sacerdozio, filippino, originario di Sirawai, nella grande isola di Zamboanga.
La sua è una vocazione nata proprio nel solco della presenza del Pime in questa terra: lo stesso zio di Fel, padre Romeo Catan, è stato infatti il primo filippino a diventare missionario del Pime. La vocazione di Fel è anche frutto dell’amicizia e della generosità di tanti benefattori del Pime in Italia: è stato infatti grazie al sostegno a distanza – la forma di «adozione» promossa da più di cinquant’anni dai missionari per affidare a una famiglia in Italia l’aiuto economico a un ragazzo o a una ragazza bisognosa in missione – che Fel e i suoi cinque tra fratelli e sorelle a Sirawai hanno avuto la possibilità di studiare. Ed è dentro a questa logica del dono che è cresciuta la chiamata al sacerdozio.
«Se non ci fossero stati tutti quei problemi sarei entrato subito in Seminario – ha raccontato Fel alla rivista del Pime Mondo e Missione -, ma sul mio desiderio vinceva sempre la preoccupazione per la mia famiglia, la necessità di aiutare i miei genitori e i miei fratelli». Così il cammino è continuato in parrocchia fino alla fine degli studi non solo suoi, ma anche di tutti i suoi fratelli. «Solo allora sono andato dal mio parroco, padre Sandro Brambilla, anche lui missionario del Pime, e gli ho detto che volevo diventare prete – continua Fel -. Lui mi ha chiesto che tipo di prete volevo diventare. Sono rimasto sorpreso: non sapevo ce ne fossero diversi… Per me il sacerdote e il missionario erano due figure che coincidevano. Li avevo sempre visti come uomini senza paura, pieni di zelo, che non pensavano a se stessi e non volevano tornare a casa nemmeno per i pochi mesi delle loro vacanze. Per questo ho risposto a padre Brambilla che volevo diventare come lui».
Ed è stato un esempio contagioso anche in famiglia: suo fratello Feljun ha infatti deciso di intraprendere la stessa strada per diventare anche lui missionario e ora ha incominciato il suo percorso di formazione sempre nel Seminario di Monza. «Con noi due e mia sorella, che è suora – racconta Fel -, tre fratelli su sei hanno intrapreso la strada verso il sacerdozio o la vita religiosa. Merito di mia mamma, che ha sempre pregato perché tutti i suoi figli diventassero preti…».
Dopo l’ordinazione sacerdotale padre Fel Catan è già stato destinato all’Italia dove presterà per qualche anno servizio nell’animazione missionaria, nella casa del Pime a Treviso. Per trasmettere anche a tanti altri giovani la stessa logica del dono senza riserve toccata con mano a Sirawai.