Il medico francese Paul de la Gironiere (1797–1862), verso il 1850, scrisse “Adventures in the Philippine Islands” e nel primo capitolo del libro racconta come, nel 1820, abbia salvato un altro francese, il capitano Drouant di Marsiglia, dalle mani dalla folla inferocita di Cavite, una zona a sud di Manila. La folla accusava i francesi di essere i responsabili della pandemia di colera che aveva colpito il loro paese. Dopo aver aiutato il capitano a scappare il medico stesso fu aggredito, ma aiutato da un filippino, a cui aveva curato la moglie, fugge a Jala Jala, un villaggio nella Laguna Bay dove vi rimarrà per altri 20 anni. Drouant e Gironiere furono gli unici francesi a salvarsi mentre il resto dei loro connazionali, una quarantina, non sopravvisse al massacro.
Erano i tempi delle prime rotte mercantili navali e nonostante le restrizioni del governo coloniale spagnolo e prima dell’apertura del libero commercio ai paesi esteri, i francesi erano già a Manila alla ricerca dell’abacà una fibra vegetale di alta qualità molto ricercata in Europa e che cresceva solo nelle Filippine.
Tra settembre e ottobre del 1820 il colera si era diffuso, qua e là, nei villaggi lungo il fiume Pasig, Manila, e in particolare nel quartiere di Tondo. Immuni rimasero solo gli abitanti che abitavano all’interno delle mura fortificate costruite secoli addietro dagli spagnoli. I più colpiti furono i poveri e i ‘nativi’ filippini. Ma il primo e vero focolaio fu registrato il 4 ottobre 1820 e nel giro di una settimana migliaia di persone morirono. Ovunque si vedevano carri che trasportavano cadaveri tanto che ben presto non erano rimasti abbastanza sopravvissuti per seppellirli tutti. Tuttavia, ci furono molte altre persone che non morirono per il colera, ma per la frenesia omicida scoppiata contro i presunti responsabili della pandemia: gli stranieri!
Nel resoconto di Paul de la Gironiere, la gente di Cavite se la prese quasi subito con i francesi. Si diceva, infatti, che volevano conquistare le Filippine e per sradicare in massa i nativi tagalog avevano importato ‘cadaveri’ con il colera. Ma ben presto ogni straniero divenne untore. La paranoia culminò il 9 ottobre quando migliaia di scalmanati cominciarono a massacrare, senza distinzione, tutti i forestieri, europei e asiatici, che incontravano, a Cavite, Manila, Binondo e Tondo. Certamente l’ignoranza su cosa era il virus e la natura inspiegabile di ciò che accadeva ai propri cari aveva fatto emergere passioni angoscianti e risentimenti inespressi; la colpa era degli stranieri venuti dal di fuori e che da anni imponevano il loro potere a Manila e in tutto l’arcipelago.
Tra i testimoni oculari del massacro ci fu Pierre Dobell, un americano che serviva come primo console in nome dell’Impero Russo a Manila: “Molte delle povere vittime erano così tagliate che era impossibile riconoscerle”. (Il che mi riporta al termine ‘tad-tad’ (fare a pezzi) da noi spesso udito in Mindanao quando paramilitari, chiamati appunto Tad-Tad, addestrati da militari governativi avevano la mano libera, ma in pugno il machete, per eliminare gli oppositori al regime di Marcos).
Ma? E già! Un virus è pericoloso molto prima che colpisca il fisico delle persone. Avviene attraverso le notizie incontrollate che come un vento malsano provocano malattie nell’anima e nella mente. Più tardi, nel tempo, si capì meglio le ragioni di quello che era successo. Quel colera aveva avuto il suo primo focolare a Jessore in india per poi venir portato in giro nel sudest asiatico con i galeoni delle compagnie delle Indie.
Certo informare il popolo filippino sulle misure da seguire per affrontare una epidemia non era la priorità del governo spagnolo e il popolo si orientava secondo quello che udiva nei vicoli affollati dei loro quartieri. Possiamo percepire ancora oggi, sebbene in minor modo, come viene alimentato lo sgomento di un popolo per mezzo dei computer e smartphone che senza sosta si scambiano informazioni in rete, ‘peer to peer’, 24 ore al giorno. All’inizio del COVID 19, molti italiani, e non solo loro, accusavano i cinesi di aver dato il via all’epidemia, scatenando pesanti insulti sui social network. Fortunatamente su internet passavano, con la stessa velocità, anche altre informazioni più scientifiche, razionali e saggi consigli come affrontare il pericolo (dopo 20 anni Paul de la Gironiere rientrerà in Francia, ma prima dovrà fare 18 giorni di quarantena a Malta). La giusta informazione aiuta parecchio ad affrontare tragedie inaspettate e a guarire l’alito cattivo che proviene dalla malattia dell’anima.
Ora però penso allo strano pensiero che mi è venuto mentre scrivevo tutto questo, quello di cercare sempre qualche consolazione nelle disgrazie altrui: meno male che non ero a Tondo nel 1820 o ad Alzano Lombardo qualche mese fa. Un rifugio in quello che è già accaduto. Una sorta di ‘piacere’ di essere ancora vivo: ma è ingiusto solo pensarlo! Anzi,in termini di pensieri che vanno e vengono, preferisco questo racchiuso nelle parole di Paul de la Gironiere scritte alla fine del suo racconto:
“La società degli uomini cresciuti in una civiltà estremamente avanzata (Francia) non poteva cancellare dalla mia memoria la mia vita modestamente vissuta (nelle Filippine)”.
Luciano