Caro Fernando
A due giorni dalla tua ordinazione sacerdotale, le mie parole sembrano forse violare la consegna del silenzio, un silenzio fatto di stupore che ti prende senti che Dio sta passando proprio all’angolo della tua strada.
Perdonami quindi se oggi rompo questa suggestione per registrare alcune riflessioni che domani forse perderebbero di intensità e freschezza.
Tu sai come tra amici ci si conosca: i volti degli amici li percorri e li ripercorri chissà quante volte, ti sembra di conoscerne anche i segreti più nascosti.
Così del tuo volto, Fernando, a noi sembrava di conoscere quasi tutti i segreti, e sbagliavamo. C’era una parte di te che a qualcuno di noi sfuggiva, tanto la velava l’esuberanza della tua forte personalità.
Sabato, dopo l’ordinazione, e, ancora, mentre celebravi in mezzo a noi, più di uno ha sorpreso il tuo volto quasi « smarrito » – perdona l’aggettivo: era il tuo un volto povero e le tue mani confessatamente vuote.
E così il nostro pensiero è corso a Pietro, alle mani dell’apostolo Pietro, fermo alla porta « Bella » del tempio, davanti al grido di uno storpio. Era come se tu ripetessi quelle parole: « Non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina … ».
Non dimenticheremo, Fernando, il tuo volto povero e le tue mani nude: a differenza di tanti vuoti trionfalismi, ci ricordavano che il mistero che ora abita in te non è frutto delle tue mani, ma è dono del Signore davanti al quale non rimane che stupore ed emozione.
E il segno dello stupore e dell’emozione era negli occhi di tutto il popolo di Dio, straripante nella chiesa come nelle notti di Pasqua e di Natale, intensamente fisso a contemplare il mistero che era nelle tue fragili mani.
D’altro canto queste prime giornate del tuo servizio presbiterale ci hanno lasciato anche l’immagine di un volto aperto a una gioia purissima: la gioia di essere prete e missionario in questa scomoda ma favolosa stagione.
Ricordo oggi il mio primo incontro con te, là nella chiesa, accanto alla porta della nostra sagrestia; da poco ero arrivato in mezzo a voi.
Fu questione di pochi secondi ed ebbi lucida la sensazione di aver trovato in te uno dello stesso « paese »: voglio dire che le mie attese erano le tue stesse attese.
Ora tutti sanno che la tua gioia è di essere prete in una generazione che chiede molto a noi sacerdoti. Per questo ti vogliamo ancora una volta ricordare le parole del Cardinale Giulio Bevilacqua, un profeta povero, maestro e amico di Papa Paolo VI, quelle parole che hanno sconvolto, illuminato e fortemente segnato il modo di essere prete di parecchi di noi e che, più di tante altre, interpretano le attese che l’uno sorprendeva nell’altro in quel lontano ottobre 1973.
« Ama questa generazione che ti domanda molto. Le generazioni che non domandavano niente al sacerdote hanno fabbricato quello obbrobrio che si chiama clericalismo, che è tutto fuorché qualche cosa di religioso, perché è il ricatto, il profitto sulla religione.
Benedici questa generazione e spera che diventi sempre più anticlericale. E voglio dire con questa parola, che veda in noi non dei dominatori della vita, ma i servitori della vita. Che veda le nostre mani vuote e pure dal più grande obbrobrio della vita che è il denaro.
Questo domandano, soprattutto a noi, il Concilio e questa generazione. Per cui benedici anche la severità che ha questa generazione verso di noi, perché questa generazione ci dà la possibilità di restare sacerdoti, cioè ministri della Parola e ministri del Sangue ».
Una terza immagine vorrei infine fissare, anche questa una immagine non facilmente dimenticabile: l’immagine di una comunità in festa.
Vorremmo dire a te, che per noi hai speso cuore e passione, che queste giornate, ci hanno rivelato quanto è cresciuta in questi anni, per dono del Signore, la comunità in mezzo a noi: questa crescita di fraternità, di tenerezza, di condivisione, questo spontaneo darsi una mano tutti insieme, anziani e ragazzi, adulti e giovani, questo sedere tutti sulla piazza della chiesa a prolungare nella cena dei fratelli il segno dell’Eucaristia, questo sentire che le persone sono sempre più profondamente dentro di te, e, primi fra tutti, i nostri amici handicappati, questo meraviglioso crescere delle cose dal « basso » … tutto questo ha trovato suggestiva conferma ed espressione nelle giornate di sabato e domenica io contemplavo, tu contemplavi, e forse, senza che ce lo dicessimo, i pensieri erano gli stessi.
C’è un salto di qualità – la qualità della vita – tra le iniziative prefigurate dall’« alto », che non riescono se non in modo maldestro a nascondere la freddezza dell’organizzazione, e questo modo spontaneo che lascia negli occhi una luce che tocca il cuore.
E’ questa amicizia che ci ha suggerito le parole per quei doni simbolici che, al di là di quanto stiamo raccogliendo per la tua futura missione, ti accompagneranno di paese in paese, e cioè un orologio e una macchina fotografica: « Sono tante le ore /che il tuo orologio segna /ma non v’è l’ora I in cui dimenticare un amico. / Andando di terra in terra / farai nuovi amici; / fissa il loro volto / e fallo giungere fino a noi / e i tuoi amici / saranno i nostri amici ».
E’ una promessa, è una speranza. Con affetto e amicizia
don Angelo (Giugno 1978)