A metà del XIX secolo un forte spirito missionario si stava diffondendo nella Chiesa Cattolica. Nel 1817 Pio VII aveva dato un maggior impulso alla Congregazione di Propaganda (ndr. la sacra congregazione “de Propaganda Fide” era stata fondata nel 1622 da Gregorio XV. Nel 1967 Paolo VI la cambierà in “Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli”, e papa Francesco, nel 2022 in “Dicastero per l’evangelizzazione”) Poi Gregorio XVI, (già Prefetto di questa congregazione), aveva aperto nuovi modi di procedere nel lavoro missionario mettendo fine al sistema dei diritti di patronato delle due monarchie iberiche di Madrid e Lisbona, alle quali era stato concesso che le iniziative missionarie fossero subordiniate ai loro disegni politici di conquista (Multa præclare del 1838).
Poi c’erano le animate discussioni sul come evangelizzare il mondo; nel 1845 parlando a un gruppo di Oblati di Maria Vergine diretti in Birmania lo stesso Gregorio XVI aveva detto: “… per fare delle Conversioni, bisogna evitare le perversioni (dei conquistatori). In tutti i pericoli e angustie in cui si trovano i missionari, mostrare quello spirito veramente Apostolico e far vedere che non si ha altro fine che la salute delle anime “. Ben presto, all’ombra di questo rinnovato spirito missionario, sorsero nuovi istituti per le missioni e tra i secoli XVII e XIX, stimolati dalle scoperte geografiche di famosi esploratori e dall’impegno nella evangelizzazione degli ordini religiosi, come quelli della Compagnia di Gesù, anche preti diocesani (come pure laici di chiesa) cominciarono a essere affascinati dai luoghi remotissimi, in particolare, per alcuni, dalle isole lontane. Fascino o arte della missione che Chesterton descrisse come: “La poesia perenne delle isole e la poesia perenne delle navi “.
Quelli di cui qui parliamo più specificamente erano uomini più di terre, laghi e montagne che di acque marine (nel nostro caso nati e cresciuti in Lombardia). Geograficamente non conoscevano altro mondo se non quello racchiuso dai confini della propria città o comune … (ndr.1 …. con antagonismi feroci e poco cristiani tra coloro che osando oltrepassare le ‘frontiere’ del proprio paese natio, per entrare in altri non troppo distanti, si dovevano sottomettere alle ‘bosinate’ vere e proprie prese in giro in pubblico. Confini, tra milanesi e brianzoli, che verranno messi a dura prova dal progresso con l’apertura della strada ferrata Milano-Monza!! ndr2. Ma sotto il ferreo impero austriaco, la regola era semplice: non allontanatevi dai vostri paesi e fatevi i fatti vostri! Tanto che i lombardi, ma controvoglia, ” .. pagavano il testatico, sopportavano i balzelli, subivano i prestiti forzosi, sopportavano i rabuffi e le frustate degli imperiali regi commissari di polizia ed anche la bastonatura dei sergenti croati” – dai ricordi di Antonio Ghislanzoni, 1870).
Dunque, uomini di chiesa un po’ stanchi di abitare in luoghi ristretti e stanziali, presidiati da soldati stranieri. Così il desiderio di uscire, andar via per dirigersi verso quei remoti territori alla fine del mondo circoscritti solo da acque marine e oceaniche. E là vollero andare.
Era forse il loro amore per l’umanità diversa e lontana un alibi per non curarsi dei vicini di casa, dei fedeli parrocchiani? Vicini coi distanti e distanti coi vicini? Saltare lo steccato formale del proprio giardino per aprire alla chiesa orizzonti illimitati? Forse. Cercavano, innanzitutto, e con spirito nobile, di andare oltre i pochi chilometri quadrati e la monotonia delle liturgie imposti dalla fede tradizionale: più immensa era la missione e più liberi sarebbero stati nel predicare in nome della Chiesa l’amore per Cristo. Non era una fuga e non vi erano sensi di colpa. Una volta arrivati avrebbero atteso di ritornare e raccontare. Non avevano in mente, come i viaggiatori del Grand Tour, i pupilli dei ricchi e nobili casati occidentali, interessi materiali, culturali e politici. Solo quello di sperimentare, o se si vuole testimoniare, una vita di fede in luoghi precristiani, abitati dall’uomo migliaia di anni prima della venuta di Cristo.
Luoghi percepiti inizialmente come immaginari; simili alle isole caraibiche sognate da Cristoforo Colombo, profumate e ricche di spezie. Ma nel nostro caso percepite come oasi ideali di alterità dove poter seminare le virtù di fede, speranza e carità. O per lo meno trasmettere, a delle povere anime di gente incorrotta ma selvaggia, religiose a modo loro ma affrante dal maligno, la saggezza popolare e cristiana ricevuta in patria dai parroci, maestri e genitori. Lontani il più possibile per praticare la prossimità, insomma. Cioè, far capire, a chi si supponesse lo ignorasse ancora, perché lontani da Roma, la distinzione tra bene e male, amore e odio, menzogna e verità; unica verità quella di Cristo. Isole non dissimili da quelle descritte da intrepidi esploratori e barbuti missionari, intraviste in grandi dipinti e stampate su libri di geografia per giovani come: Le Tour du Monde, o Tableau Geographique et Historique de Tous le Peuples de la Terre del 1822. Libri popolari nel XIX secolo con belle incisioni e illustrazioni colorate a mano, cartografie su cui sognare e tracciare percorsi immaginari.
I nostri probabilmente erano lettori assidui dell’Amico Cattolico, bollettino pubblicato a Milano nel 1848 che conteneva molti riferimenti sulle missioni. Ma anche potevano benissimo aver letto i diari di bordo di James Cook del 1772 nel quale si descriveva l’uso del primo cronometro marino per stabilire latitudini e longitudini fino allora impossibili da calcolare. Oppure si erano dilungati ad ammirare le 310 illustrazioni di Domeny de Rienzi sull’Oceania contenute nella enciclopedica L’Univers Pittoresque pubblicato a volumi a Parigi dal 1835 (che ispirarono anche Jules Verne per il suo romanzo 20.000 leghe attorno al mondo e più tardi anche Emilio Salgari per i suoi romanzi d’avventura). Non sapendo, tuttavia, che coloro che con entusiasmo giovanile oltrepassano i confini tracciati sulle mappe dai più astuti e potenti ne sarebbero usciti perdenti. Così scrive Umberto Eco: “Come un certo Plinio non poteva prevedere, anche le mappe fluttuano sempre”.
Possiamo qui ricordare, ma solo per onore di analogia, altre isole conosciute perché scritte, descritte, dipinte e per lo più immaginarie: l’Isola di Baratteria governata dal buon senso di Sancho Panza oppure quella dove Ulisse non si lasciò sedurre da Calipso ma anche l’isola che non c’è, che si raggiunge e subito si perde nel brevissimo momento del sorgere del sole. Lontane, come quella del Purgatorio nella Divina Commedia agli antipodi da Gerusalemme ridotta ‘come isola spoglia in mezzo al mare’ (Ezechiele 26,5). Vicine; eppure, sempre al di là dell’orizzonte, esotiche, come le isole di Kittim nel libro di Geremia; nel quadro di Burgkmair, San Giovanni Evangelista nell’isola di Pathmos, la vegetazione dipinta rimanda a un paese lontano d’oltre oceano. Che dire poi dell’Isola “musicale” disabitata di Joseph Hayden o della affermazione di John Donne, già circolante al tempo dei nostri uomini lombardi, che “Nessun uomo è un’isola“; quell’isola in cui tutti siamo immersi senza accorgersi. Ma nella letteratura letta dai nostri c’erano luoghi veramente esistiti come l’isola di Robison, dove era naufragato una persona reale, Alexander Selkirk, l’isola oggi registrata come una delle isole di Juan Fernandez di fronte al Cile.
Letture, racconti e visioni che, nel momento di scegliere la rotta, hanno influenzato i futuri e lombardi missionari. C’erano isole fortunate perché avevano già ricevuto, o iniziato a ricevere, la Buona Novella. Altre erano ignote e politeiste perché chi vi era approdato, missionari e marinai di lungo corso, raccontava di gente che adorava solo manufatti sacri e conchiglie. Ai nostri giovani lombardi piacevano le seconde perché erano a oriente. Perché erano al di là del mondo conosciuto oltre i quali le due metà del pianeta si congiungevano. Desiderio forse di essere loro i primi ad assorbire e rielaborare queste culture isolate per cucirle definitivamente i due lembi, ovest e est, tra loro, in nome di Cristo e della Chiesa Universale in un unico e liquido mantello regale, un’unica grande mappa di immaginaria fratellanza, concepita secoli prima nella mente di un falegname nato in un piccolo villaggio della Palestina. Insomma, quello che questi preti e laici leggevano ogni giorno recitando i salmi: “Diano (Diamo) gloria al Signore e il suo onore divulghino (divulghiamo) nelle isole lontane” oppure “alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti “(Is 66,19).
In breve, i nostri primi, o primi nostri, concludevano che la Lombardia era troppo limitata per permettere a loro di esprimersi pienamente come cristiani e preti. E così decidono di allontanarsi. Non era un esilio autoimposto perché non tradiranno mai i loro legami con la terra natia. (ndr. Ma c’era veramente bisogno di missionari provenienti da nazioni cosiddette occidentali per i territori orientali? Nel 1844, i missionari chiamati a raccolta nel Sinodo di Pondichery, India, non conobbero altro provvedimento ..”per la difficoltà immensa a frenare l’avanzata del protestantesimo e poi convertire i “400 milioni di idolatri sparsi sulla superficie del globo” … che formare il “clero indigeno“. (Stesse richieste erano state avanzate dai missionari cattolici in Africa e nelle Americhe).
In ogni caso i nostri “diocesani dallo spirito missionario” erano molto richiesti. All’inizio PIO IX aveva pensato di mandare i primi del PIME (Allora Istituto delle Missioni Estere di San Calocero) nell’isola di Corfù. Il Papa il 30 agosto 1851 si congratulava con i vescovi lombardi per la prossima missione tra gli infedeli delle lontane regioni, ma poi nella sua lettera esclamava: “Oh!, quanto bene si potrebbe fare col loro lavoro anche in regioni non tanto distanti da noi“. A Corfù, naturalmente. A dir la verità li avrebbe visti bene anche nell’isola di Ceylon (Ceylan) nell’Oceano Indiano, ma non se ne fece niente. Li lasciò andare, con riluttanza, verso altre isole, a 10.000 chilometri di distanza nell’Oceano Pacifico vicino all’Australia, conosciuta ancora come New Holland (Nuova Olanda: i primi ad arrivare in Australia furono appunto gli olandesi con il navigatore Willem Janszoon nel 1606). A Corfù li voleva …
(ndr 1. Tra i “primi” del PIME c’erano preti giovani e brillanti alcuni di loro avevano militato “Angeli del Reggimento” per la Patria nelle 5 giornate di Milano, 1848, e pensavano alla giustizia sociale come Rosmini, cioè maggiore libertà e meno ingerenza degli austriaci sulla popolazione lombarda …ndr 2. Tra l’altro il Rosmini aveva tenuto compagnia a Pio IX nel Santuario della Santissima Trinità di Gaeta oggi santuario gestito dal nostro PIME … ndr 3. L’isola ci Corfù in quegli anni era diventata pure, luogo temporaneo d’esilio di diversi italiani, intellettuali e poeti anti-austriaci come Luigi Mercatini autore della Spigolatrice di Sapri “Erano trecento giovani e forti e sono tutti morti… eccetera, eccetera”)
,,, insomma PIO IX li voleva là perché nell’isola era in ballo un cambiamento storico. Nel 1848, dopo che la guerra di indipendenza della Grecia contro l‘Impero ottomano si era conclusa vittoriosamente nel 1830 con l’aiuto dell’Inghilterra, l’isola si era resa indipendente e dotata di una propria Costituzione (nel 1864 entrerà tuttavia a far parte della Grecia). Un’isola con pochissimi preti e due vescovi uno molto vecchio e il coadiutore che voleva dare le dimissioni. Un’isola “ricetto di tanti emigrati” disse Pio IX a don Carlo Salerio, uno dei primi che dette origine a quello che oggi chiamiamo “PIME” (Pontifico Istituto per le Missioni Estere), appunto.
Chissà cosa avrebbero potuto fare a Corfù, Salerio e compagni? Forse organizzare gli emigrati (italiani) in ‘comunità’ di base come fecero brevemente nel 1848 durante le cinque giornate di Milano, con il loro amico patriota Antonio Stoppani, rosminiano, poi Abate e famoso geologo ( Ndr. Tre anni dopo, quando i nostri erano già in Melanesia in una lettera del Card. Fransosi, 15 novembre 1853, i nostri verranno considerati giovani che avevano concepito l’idea di emigrare anziché rimanere soggetti perpetuamente al governo austriaco e Stoppani, missionario sì ma di idee diverse, scriverà che la vera missione si svolge sul territorio (geografico e geologico) in cui si è nati, risposta non dissimile di Angelo Ramazzotti al padre oblato Milani che chiedendogli se avesse la vocazione per le missioni estere rispose che per il divino volere era meglio che rimanesse in Italia, al collegio di Rho e che lì erano le sue Indie e la sua Cina – Cagliaroli pp 61-62 …).
(ndr. Non tutti, infatti, hanno la vocazione missionaria, la quale richiede sempre un pizzico di fantasia e temerarietà. Vocazione non certo a rimanere sempre all’estero, come solitamente si pensa, semmai “a tempo” perché come ogni uomo normale anche il missionario oscilla tra la voglia di conoscere, esplorare e insegnare e il desiderio di tornare a casa e raccontare).
Oppure iniziare a Corfù un dialogo tra religioni? Ma i tempi non erano ancora maturi per queste cose. Oggi la proposta sarebbe interessante: gli abitanti di Corfù, circa 110.000, rimangono per la maggioranza Greco Ortodossi, ma qui vive anche una minoranza di ebrei e 3800 cattolici. In Ceylon avrebbero, invece, fatto meraviglie trovando innumerevoli “fratelli che giacciono ancora sepolti nelle tenebre e nelle ombre di morte!”, ma rifiutarono quel luogo con un ragionamento un po’ forzato: Ceylon è solo una isola di 15.000 mq. con 830.000 abitanti dove la salvezza era stata predicata tre secoli prima … mentre in Oceania ci sono innumerevoli isole e più di 20.000.000 (citando Adriano Balbi (1782-1848), autore dell’Atlas ethnographique du globe, 1826) di individui sconosciuti. divisi in soli tre vicariati apostolici” (Relazione di p. Salerio, 6 novembre 1850).
Insomma, i primi appunto, avevano in mente isole alla fine del mondo, l’Oceano Pacifico, i cosiddetti “paesi remotissimi…e…agli ultimi confini della terra”. Tra queste uno statuto speciale era riservato alla Micronesia e più precisamente alle Isole Caroline, scoperte nel 1542-3 da Ruy Lopez de Villalobos e nominate in onore di Carlo V, allora ancora sotto il dominio spagnolo e governate da Manila la capitale delle Filippine. Tra l’altro le Caroline erano chiamate anche Nuevas Filipinas, come da alcuni scritti e mappe, dei Gesuiti nel 1700 e nella “The American Cyclopaedia“, di George Ripley e Charles A. Dana del 1888. Saranno in seguito reclamate da diverse nazioni come Inghilterra e Germania. (ndr. Una stazione metropolitata di Madrid è chiamata “Islas Filipinas”)
P.S. Vedere anche questo articolo pubblicato dal Times 1885 “The Coveted Carolines”
Della Micronesia, ai giovani preti lombardi e a mons. Ramazzotti, che li aveva presi sotto le sue cure, ne aveva parlato il padre Supriès, alla Certosa di Pavia, il quale aveva loro menzionato il martirio di padre Giovanni Antonio Cantova, gesuita ‘milanese’. Milanese per l’appunto (p.101 Il P.I.M.E. e le sue missioni, p .G. Brambilla vol primo, 1940). Successivamente padre Supriès scriverà al padre Taglioretti, allora incaricato della formazione dei primi del PIME: “Mi rallegro poi che la dimanda delle Caroline sia stata fatta da Monsignor Vescovo di Pavia a Propaganda: “Il maggior ostacolo, voglio dire quello dei Maristi, essendo levato, io non dubito punto che quella interessante Missione non sia confidata alla nascente Congregazione di Saronno.” Egli è sicuro che “quegli isolani sono i più dolci, i più pacifici di tutta l’Oceania e che vi è speranza fondata che si mostreranno docili alle inspirazioni della grazia ed alla voce dei loro apostoli”. In realtà non erano stati così docili” Già nella sua prima spedizione, 1721, il Cantova aveva trovato resistenza dagli indigeni Palaos (abitanti dell’isola di Palau) che minacciosi accusavano i missionari di essere venuti a cambiare le loro tradizioni (Francis X. Hezel, S. J., The First Taint of Civilization: A History of the Caroline and Marshall Islands in Pre-Colonial Days, 1521-1885) Per inciso nel 1841, pochi anni prima della partenza dei nostri, il marista Pierre Chanel era stato martirizzato, ma più a sud-est di qualche migliaio di chilometri, a Futuna, tra le isole di Suva e Samoa, allora Prefettura dell’Australia Orientale.
Circa i Gesuiti la loro prima missione in Micronesia nel 1675 fu un disastro: cinque di loro furono subito uccisi nell’isola di Guam. Padre Cantova comunque rimarrà nelle isole Caroline sino alla sua morte (anche lui martire, ma sull’atollo di Mogamog, tra le isole di Palau e Guam), per una decina di anni. Nelle sue lettere dall’atollo di Falalep-Ulithi (Lettres edifiantes…, XVIII – Paris 1728 -, 188-246. Translated and multilithed by the Micronesian Seminar, Turuk … e leggere anche F. Spilimberg, Vida, Virtudes, y gloriosa Muerte del V.P. Juan Antonio Cantova pubblicato nelle Filippine, 1740) descrive i costumi e abitudini degli abitanti di quei fantastici atolli. Fino al 1740 i gesuiti tenteranno di evangelizzare quelle isole, con grandi perdite di uomini e mezzi, soprattutto imbarcazioni. Poi più niente.
Del resto nel 1769 il governatore delle Filippine, per decisione di Carlo III, bandiva i gesuiti dai “territori” spagnoli e da allora le Caroline rimasero ‘isolate’ per circa 150 anni (solo nel 1886 diventeranno stabile campo di missione per i Cappuccini dopo diversi e infruttuosi tentativi dei Maristi) e molto probabilmente i nostri lo sapevano e là desideravano andare per continuare l’opera dei gesuiti cacciati via e anche sostituire i maristi. Supriès sino alla fine rimase dell’opinione che i nostri avrebbero fatto grandi cose in Micronesia e non in Melanesia. Non si sa se poi i Maristi, allora incaricati di avere cura di quelle isole (ma sembra non avessero personale per farlo) si opposero, cioè se furono “il maggior ostacolo “, fatto sta che p. Salerio e compagni, non ci arrivarono mai e approdarono invece in Melanesia, appunto, nelle isole di Woodlark e Rook (oggi parte della Papua Nuova Guinea).
Cinque giovani preti e due laici, dalle terre lombarde, pieni di entusiasmo: oltre a Carlo Salerio vi era Paolo Reina, Giovanni Mazzucconi, Timoleone Raimondi, Angelo Ambrosoli, Giovanni Corti e Luigi Tacchini. Prima di partire raccolsero i fondi per la spedizione per l’ingente cifra di 65.500 franchi (V. Cognoli nr1 USPime). Mons. Marinoni, loro direttore, parla invece (pag.75 Lettere di mons. Marinoni di Domenico Colombo) di 60.000 franchi e che inizialmente ne furono raccolti solo 30.000 (12.500 dall’Opera della Propagazione della Fede e i restanti arrivati dalla S. Congregazione di Propaganda e da un legato di un defunto sacerdote), il resto verrà dai vescovi lombardi e da famiglie abbienti milanesi come i nobili Visconti Modrone).
(ndr. Tanto per avere un riferimento di quanto costasse la vita allora riporto alcune righe scritte nel libro “La pelle di Zigrino” (o di Zingaro) di Balzac, 1831, dove il giovane Raphael afferma :”Riducendo la vita ai suoi autentici bisogni, allo stretto necessario, trovavo che trecentosessantacinque (365) franchi l’anno dovessero bastare alla mia povertà. Infatti, quella somma esigua mi è stata sufficiente finché ho voluto subire la disciplina monacale impostami…” poi continua a sostenere che l’alloggio gli costava 3 soldi al giorno di affitto e 2 soldi al giorno per il riscaldamento. Diceva pure di mangiare 3 soldi di pane, 2 di latte e 3 di salumi per un totale di 20 soldi al giorno).
Durante la spedizione, tuttavia, si parlerà più di fede che di soldi, di soldi tuttavia si sa per certo che a un certo punto ne rimasero ben pochi. Partirono il mattino del 16 marzo 1852 da San Calocero, Milano. Alle nove e mezzo del mattino, i sette, si trovarono allineati dinanzi all’altare e dopo la messa ricevono il crocifisso. Il momento è solenne. Tutti li guardano. I loro genitori piangono, altri si domandano che cosa vanno a fare così lontani e i ragazzi sognano un giorno di imitarli e navigare. Tutti erano commossi. Poi Paolo Reina, si stacca dal gruppo e parla alla gente, alle autorità religiose e a quelle civili. Ringrazia mons. Ramazzotti e coloro che hanno permesso questa scelta radicale in nome di Cristo. Poi tocca a Carlo Salerio che fa due passi verso l’altare e si inginocchia di fronte al Santissimo. Con voce chiara, ma velata di pianto, legge la “Protesta alla Santissima Trinità”, composta appositamente da un altro dei partenti: Giovanni Mazzucconi.
Il clima successivo alla cerimonia però è di allegria. Forse troppa. Un anno dopo, nell’approssimarsi della seconda spedizione, qualcuno dirà di procedere con maggior calma e gravità. La prima spedizione meritò riguardi speciali e ‘compatimento’, la seconda deve essere di gente più seria. I primi sette avevano comunque fretta di partire e così, dopo i saluti, salgono subito sulla diligenza verso Torino. Si racconta di un ragazzo di 14 anni, lavorava all’Albergo Del Pozzo come “piccolo”, che nel trambusto che c’era, cercò di aggregarsi. Lo scovano nascosto tra i bauli e lo fanno smontare. Lui, per tutta risposta, insegue la diligenza e ogni tanto ci si aggrappa. Lo fermano, inesorabilmente, a Magenta. Il giorno dopo la diligenza arriva a Torino. Poi su per le strade del Cenisio attraversata in slitta per la neve che c’era, per poi scendere a Lione il 19 marzo festa di San Giuseppe e onomastico del Marinoni, loro direttore. Lui, un po’ acciaccato li stava comunque accompagnando. Qui incontrano l’abate Colin, Superiore Generale dei Maristi, il quale muta di punto in bianco (a lui era stato l’incarico di scegliere dove mandarli) il piano originale che favoriva la Micronesia. Ora parla solo di Melanesia e precisamente dell’isola di Woodlark dove i Maristi erano arrivati qualche anno prima, ma con scarso successo. E loro sarebbero stati migliori? Chissà se si posero la domanda?
Rimasero a Lione alcuni giorni poi proseguirono per Parigi e Londra, dove arrivarono il 6 aprile, martedì santo. Chissà anche se pensarono di passare, loro sette, da Stiffel , presso Plouaret in Bretagna a pregare i Sette Giovani Dormienti, protettori dei naviganti, perché il viaggio era uno di quelli molto lunghi e pericolosi. Comunque il sei di Aprile, di sera, arrivarono a Boulogne, sullo stretto di Calais e il mattino seguente con un battello a vapore (25 metri per 5 circa di legno con un motore di 30 cavalli) approdarono, dopo un’ora e 45 minuti, vomitando non si sa, a Folkestone per poi proseguire in treno per Londra dove, a quanto sembra, apriranno un conto alla Matheson & Company una compagnia o trading house fondata nel 1848 da Sir.James Matheson (1796-1878) con ufficio centrale a Hong Kong (Matheson era stato senior partner di William Jardine (1784-1843) trafficante di seta, droghe e grande protagonista (in negativo) nella Guerra dell’Oppio)
Se desideravano andare nelle isole dove era stato Cantova la rotta via Singapore, era migliore e una volta arrivati a Manila avrebbero potuto salpare per le Caroline con il permesso del Regio Governatore delle Filippine. Probabilmente il movimento massiccio di vascelli verso l’Australia, dove c’era una più aggressiva competizione tra le compagnie di navigazione, rendeva molto più conveniente quella rotta. Insomma, costava di meno. Del resto, i nostri sembra non abbiano mai contattato i Gesuiti di Milano e nemmeno quelli in Australia (arrivati là un paio di anni prima nel 1847). Inoltre, gli stessi gesuiti sarebbero ritornati nelle isole governate dalle Filippine solo nel 1859 e certamente non avevano notizie aggiornate sulle Caroline di Cantova quelle che invece avevano i Maristi, già approdati in quelle isole nel 1837 (senza rimanerci a lungo per via del numero elevato di perdite subite).
Naturalmente dovevano navigare usando le navi commerciali. L’importante era partire, arrivare e iniziare a convertire. A cavallo o qualsiasi altro mezzo di trasporto, “Per sottomettere tutti al Suo dolce impero e portar loro la vera civiltà cristiana” come si diceva ancora a metà del XX secolo (Operare Autem Pacii p.15). Uno dei testi della Bibbia che, molto probabilmente, li incitava al grande viaggio erano le parole del profeta Isaia 66:19-21: “Io porrò in essi un segno e manderò i loro rimanenti (eredi) alle genti di Tarsis, Put, Lud, Mesech, Ros, Tubal e di Grecia, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore,” Ad insulas longe, insomma. E quello era (mancando gli aerei) il tempo delle navi.
La mattina del 10 aprile 1852, la vigilia di Pasqua, i nostri si svegliarono e andarono a Gravensend all’estuario del Tamigi, un porto brulicante di navi con una selva di alberi e vele, per imbarcarsi sul Tartar della House Green, una goletta con tre alberi ‘lunga 70 passi e larga 14‘ diretta a Port Jackson (Sidney ), New South Wales, Nuova Olanda: la nave avrebbe poi proseguito in Dicembre per Manila e San Francisco.
Non una grande imbarcazione solo 567 tonnellate (contro la più grande che allora copriva quella rotta la Commodore Perry di 2143 ton). Era una vecchia ‘fregata’ militare del 1814 riadattata per trasporto passeggeri, oro e merci, a vela con tre alberi, il Tartar poteva accogliere al massimo 260 persone (in quel viaggio Salerio racconta che vi erano 130 persone e 400 animali, i secondi, nella cambusa, sarebbero stati macellati per preparare il cibo giornaliero). Solo 25 le cabine, a un costo di circa 45 sterline ciascuno, riservate per passeggeri, di estradizione così detta borghese e fornite di tutti comodi per il viaggio. I nostri viaggiarono in tre cabine familiari “fornite di tutti quei comodi per il viaggio” scrive mons. Marinoni. Nel libro di bordo otto sono i “reverendi”. Cinque identificabili: Marzieconi (Mazzucconi) Reunondi (Raimondi) Ambrosity (Ambrosoli), Regna (Reina), Salama (Salerio), degli altri due è difficile capire chi fosse Tacchini e chi Corti, registrati con i nomi stranissimi di: Fabocene e Jasractie . Ma l’ottavo Solomon ‘reverendo’ non era altro che un ragazzo delle isole Wallis (presso l’isola di Futuna dove era stato ucciso il marista, poi santo, Pierre-Louis-Marie Chanel (1803-1841)) che il padre Colin aveva affidato ai nostri per riportarlo a Sidney.
Nella cabina (o in unica stanza) Salerio aveva costruito un altare dove ogni giorno i cinque sacerdoti, uno dopo l’altro, (a quei tempi non era permesso la concelebrazione) celebravano la messa (non si sa, ma è da supporre che i nostri si portarono appresso anche gli indumenti liturgici: camici, cingoli, amitti, dalmatiche, stole, pianete di vari colori, piviale, tunicelle, manipoli, calzari e libri).
Il resto dei passeggeri era invece sistemato alla bella e meglio nello ‘steerage‘, il sottoponte dove erano stivate anche le merci. L’igiene era scarsa e peggiorava con l’arrivo del cattivo tempo. A volte si udiva il terribile grido: “Batten-down the hatches!!” cioè “Chiudere i boccaporti!!, che per i passeggeri del ponte inferiore voleva dire rimanere senza ventilazione per diverse ore, condizione ideale per la diffusione di virus e malattie. L’uso di candele o lanterne a olio era limitato e talvolta vietato: il fuoco poteva diffondersi con una velocità terrificante tra i materassi di paglia. Un disastro in mare o un naufragio sulla costa lasciava poche speranze di salvataggio: pochi sapevano nuotare, e non c’erano abbastanza scialuppe di salvataggio. Lì sotto, senza servizi igienici, gli emigranti europei sognavano di respirare tempi migliori in Nuova Olanda (Australia) e pregavano il Signore, e i Sette di Stiffel, di arrivarci sani e salvi. Per coloro che viaggiavano nello steerage il costo del viaggio era sulle 10 sterline a testa. In quegli anni il salario minimo settimanale di un agricoltore in Inghilterra era di 10 shilling, equivalente a metà sterlina, e meraviglia come potessero raccogliere la somma per il viaggio (ma come sappiamo anche oggi nelle Filippine molti vendono tutto e fanno debiti pur di emigrare negli Stati Uniti). Era tempo di emigrazione (ogni mese circa 1000 emigranti sbarcavano a Sidney) e poi era iniziata la corsa all’oro: l’anno prima (1851) minatori americani avevano scoperto enormi quantità di giacimenti auriferi presso i fiumi delle Blue Mountains. La scoperta, tuttavia, stava creando problemi ai trasporti marittimi perché molti marinai una volta arrivati a Sidney preferivano abbandonare le navi e diventare cercatori d’oro, e di conseguenza i salari degli equipaggi erano parecchio aumentati così come i costi di tutto il trasporto marittimo.
Alla partenza, a mezzogiorno del 10 aprile 1852, i giovani missionari sulla prua recitano una preghiera alla Stella del Mare e poi ad alta voce leggono la ‘protesta’. Mazzucconi scriveva nel suo diario circa “la fragilità di quel legno sul quale avrebbe dovuto restare per quattro o cinque mesi a galleggiare sugli interminabili abissi delle acque. Ma niente era questo a confronto del suo fragile corpo sballottato tra il tempo e l’eternità “. Un ultimo saluto e abbraccio al Marinoni, che sarebbe ritornato a Milano. Sotto, nello steerage, chi aveva lasciato tutto, piangeva. “Siamo nelle mani di Dio”, si incoraggiavano l’uno con l’altro, mentre si davano pacche sulla schiena, e “Nelle mani di Dio si sta bene”, si rispondeva. Si consolavano a vicenda ma poi per tutti indistintamente sarebbe arrivato il mal di mare. I nostri, a quanto pare, si fecero notare per l’allegria che mostravano nei momenti peggiori della navigazione.
Il viaggio, tuttavia, iniziò tristemente con la perdita di un giovane marinaio. L’12 aprile, di mattino, nello slacciare la vela dell’albero maestro questa lo colpì violentemente gettandolo in mare. Cercarono di salvarlo facendo scendere una scialuppa ma troppo tardi; stordito affogò subito. Altri due marinai seguiranno la stessa sorte prima dell’arrivo in Australia. La goletta era governata dal capitano Davis uno scozzese di 35 anni che, anche se di fede differente, strinse amicizia con i nostri, soprattutto con Carlo Salerio al quale mostrava ogni giorno sulla mappa la posizione del Tartar. Latitudini e longitudini che Salerio fedelmente copiava su un piccolo libretto. Navigare sulla rotta verso l’Australia era complesso, richiedeva una grande abilità da parte del capitano, nonché l’uso di vari strumenti di navigazione come il telescopio, la bussola marina e il sestante. Tutte cose che il Salerio imparò a usare.
La spedizione missionaria era invece diretta da Reina. Era stato nominato (con tutte le facoltà annesse, circa trenta) Prefetto Apostolico di Melanesia, o della Micronesia, o di ‘altre’ missioni in Oceania. Una nomina generica e quegli ‘o..o..o’ lo faranno soffrire non poco. Circa la rotta seguita, a quei tempi le navi di trasporto verso l’Oceania non facevano scali. Seguivano la famosa Clipper Route. Navigavano verso la costa più orientale del Brasile per prendere vento e rivolgere la prua verso il Capo di Buona Speranza (Sud Africa) e poi, spinte dai venti gelidi e antartici (“fioccava disperatamente” scriveva nel suo diario Salerio), se ne andavano verso l’Australia. Un viaggio tra i 75 e gli 80 giorni.
Il 12 giugno il Tartar passò il Capo di Buona Speranza, che Bartolomeo Diaz, nel 1486, aveva battezzato “Cabos de todos tormentos”. Quello che i nostri non sapevano è che tre giorni dopo la loro partenza il Vicario Apostolico dei Maristi dell’Oceania Centrale, mons. Bataillon aveva appena risposto a una lettera del Cardinale Prefetto Franzoni scritta quasi un anno prima (22 agosto 1851) in cui si chiedeva maggior informazioni sulle isole del Pacifico. Bataillon rispondeva che si poteva benissimo fare delle Figi un vicariato indipendente. Da dare a qualche altra società missionaria? Si e no. Forse. A rendere le cose più incerte il 18 aprile 1852 (dopo una settimana dalla partenza del Tartar) l’abate Colin aveva scritto al Marinoni di contattare personalmente il Franzoni. Colin non sapeva ancora se Propaganda Fide vedeva favorevolmente i nostri in Melanesia (Woodlark) anche perché le poche notizie che arrivavano dalla Nuova Caledonia non erano confortanti: “Se Propaganda decide di mandarli da qualche altra parte, fatemelo sapere”, scriveva nella lettera. Già un anno prima, 23 giugno 1851, Colin era in ansia e aveva scritto ai suoi Maristi di decidersi se lasciare Woodlark o rimanere.
La lettera però sarebbe stata aperta solo dopo un anno dall’allora Prefetto di Micronesia e Melanesia mons. Fremont il quale, nel rispondere, si scusa del ritardo (era in ‘giro’ tra le isole da nove mesi) ma afferma anche che i Maristi da Woodlark non vogliono proprio andarsene. Anzi, dettagliando il lavoro fatto e il progresso, giudica la situazione della missione molto promettente. Il 29 giugno 1852 Fremont scrive anche al Prefetto Franzoni sottomettendo il suo rapporto sulla Prefettura dove chiarifica la sua posizione come Prefetto Apostolico di Melanesia e Micronesia con le facoltà assegnate dalla Santa Sede e rinnova la richiesta di rimanere in Melanesia (Woodlark). Il rapporto incoraggiante di Fremont in fondo facilitava il piano di Propaganda Fide: lasciare i Maristi a Woodlark (cioè, in Melanesia) e spingere i nostri a prendersi cura della Micronesia se non addirittura delle Figi.
Il 30 giugno, in alto mare, la navigazione si fa difficile. Comincia a piovere, poi a grandinare e infine a nevicare. Il rollio della nave impediva di stare in piedi e nemmeno si poteva celebrare la messa. Qualche giorno dopo una grossa onda si abbatte pesantemente sulla nave da mettere tutto sotto sopra: tavole, bauli, vasi, cappelli, oggetti di ogni genere cadevano e rotolavano sul pavimento.
Non so se i nostri avessero letto il poema del 1798 “La ballata del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge (1772 1834) dove ad un certo punto del viaggio:
«Poi vennero insieme la nebbia e la neve; si fece
un freddo terribile: blocchi di ghiaccio, alti come
l’albero della nave, ci galleggiavano attorno,
verdi come smeraldo»
Poi il mare si calmava e ritornava ad essere una perfetta linea all’orizzonte. Ma per poco. Qualche giorno dopo arriva una nuova tempesta che getta tutti nello sconforto. Durò tutto 24 ore. Il vento era terribile e la Tartar con le vele mezze arrotolate cominciò a viaggiare inclinata sul fianco destro con le antenne orizzontali degli alberi spezzate e l’albero di poppa stroncato ai piedi della gabbia di vedetta. Rimase pericolosamente sospeso perché impigliato dalle numerose corde legate agli altri alberi tanto che i marinai dovettero tagliarle facendolo scivolare l’albero con grande fracasso nel mare:
«Chiusi le palpebre, e le mantenni chiuse;
e le pupille battevano come polsi;
perché il mare ed il cielo, il cielo ed il mare,
pesavano opprimenti sui miei stanchi occhi;
e ai miei piedi stavano i morti.»
Nella ballata la Santa Vergine invia un sonno ristoratore al vecchio marinaio superstite, ai suoi occhi oppressi dalla paura e dal peccato di aver ucciso un grande uccello marino di buon auspicio. Cattivo auspicio, per il Tartar, la morte del giovane marinaio il 12 aprile.
Ma sul Tartar non ci furono altri morti oltre agli altri due: “Quanto a noi”, scrive Mazzucconi, eravamo … tranquilli tanto non avevamo nulla da guadagnare o da perdere” e chiesero una benedizione straordinaria dal Prefetto. Il giorno dopo arriva un danno a cielo sereno. Una strana e grossa onda, retaggio della tempesta, sfonda la parete della nave, fortunatamente a sei braccia dal livello dell’acqua. L’onda sommerse il parapetto e allagò il ponte sottostante penetrando attraverso le scale e nello steerage. Ma niente di male e il Tartar, con sole tre vele riesce a procedere, questa volta per un ultimo tratto di mare senza ulteriori incidenti, mossa dall’azione dello «spirito dell’Antartide» si dice nella Ballata del vecchio marinaio.
La nave malconcia e senza l’albero di mezza arrivò a Sidney il 26 luglio 1852 e due giorni dopo i nostri sono nel centro dei Maristi a Tarban Creek. Reina a nome del gruppo parla di essere pronto per la Melanesia (Woodlark) e che le Figi potrebbero essere una seconda scelta. I Maristi ne sono felici e dicono che mons. Bataillon, vicario apostolico da dieci anni dell’Oceania Centrale, sta cercando missionari per le Figi e fa incontrare i nostri con alcuni giovani provenienti dall’isola di Wallis (Amici di Salomon?). Circa Woodlark fa capire che i Maristi non hanno fretta di andarsene. Reina risponde che non ci sono difficoltà perché l’accordo con l’abate Colin prima di partire era che si poteva lavorare assieme nello stesso territorio. Il 2 agosto i nostri incontrano mons. Bataillon, marista e vicario dell’Oceania Centrale, e consegnano a lui una lettera del Franzoni per i Maristi dell’Oceania. Nella lettera si dice che il Superiore Generale dei Maristi, Colin, aveva chiesto a Propaganda di ridurre la responsabilità dei Maristi, per mancanza di personale, nell’Oceania Occidentale e che alcune parti del vasto distretto potrebbero essere date a altre società missionarie. Franzoni specifica le isole nell’arcipelago di Viti e Figi, ma aggiunge che l’ultima decisione sulla cosa fare (in questo caso) spetta ai missionari di Milano.
Sull’incontro faccia a faccia con Bataillon Reina scriverà sul suo diario le incertezze del momento dopo il lungo viaggio. In pratica Reina dice a Batallion che l’ultima decisione dipende da lui e Batallion risponde che non vuole avere niente a che fare con questo affare troppo legato alla sua persona e rincara la dose: “So che i nostri missionari in Woodlark hanno ricevuto istruzioni da Colin di rimanere finché la missione prospera … e ce ne sono abbastanza di loro sull’isola. Se tuttavia la missione fallirà allora ce ne andremo … e se falliamo noi cosa potete fare voi?” Reina risponde che sanno delle difficoltà ed è proprio per questo che vogliono andare là. Una domanda che Reina si sarà posto era se i Maristi volevano veramente lasciare la Melanesia (Woodlark) e concentrarsi in qualche altra parte dell’Oceania o viceversa. Nelle osservazioni sul suo diario: “Sembra che (Bataillon) non ci voglia nelle Figi …” Tuttavia, Reina ipotizza che Batallion aveva parlato delle difficoltà a lavorare in Woodlark per meglio valorizzare il lavoro fatto dai suoi Maristi in Melanesia. Nell’incertezza Reina escogita un nuovo piano: “Allora noi andremo prima a Woodlark e dopo un periodo necessario cercheremo di entrare in Nuova Guinea”. Per lui è chiaro: la Micronesia rimane una vaga possibilità e il vero obiettivo diventa una nuova missione: quella di sbarcare nella enorme e ancora sconosciuta isola di Nuova Guinea. L’isola di Rook deve diventare la base di lancio per accedere là. In realtà Bataillon capiva i problemi che i nostri avrebbero incontrato a Woodlark e Rook e cercava di dissuaderli, del resto Propaganda li avrebbe visti meglio in Micronesia.
Diciamo che i nostri ebbero una grande difficoltà per intendersi con i Maristi che non conoscevano l’italiano e i lombardi non erano certo esperti in francese. Tra l’altro nel pacco della corrispondenza portato ai Maristi non si trova più il documento, importantissimo, in francese, di Propaganda sulle Istruzioni di come condurre la missione (Lettera amletica alla Rosencrantz & Guildenstern???). C’è solo la copia originale in italiano che in seguito i nostri cercheranno di tradurre. Confusione anche per capire chi fosse il vero prefetto: Reina o Fremont? Diocesano o religioso? Prefetti di Melanesia o Micronesia? Di uno solo o di tutti e due? A Fremont le facoltà erano state date dallo stesso PIO IX, a Reina, molto probabilmente, da Propaganda con il consenso del lo stesso Papa. Naturalmente Roma puntava su un accordo in loco dei due per rendere Melanesia e Micronesia due distinte prefetture. Qualche mese più tardi a Roma il Papa sembrerà scocciato da come si è progettata la spedizione e alla presenza di Marinoni dirà che avrebbe visto meglio i nostri a Corfù e non in Oceania con il risultato che Propaganda blocca una seconda spedizione per l’Oceania. Marinoni va in crisi e non ottiene l’appoggio di mons. Ramazzotti, la mente del progetto, più incline a seguire i desideri del Papa e per il quale il direttore Marinoni forse si era fatto troppo condizionare dall’entusiasmo del primo gruppo di giovani preti e laici.
Tuttavia, Marinoni è sicuro che il testo delle Istruzioni portato dai nostri sia un valido documento e che la missione in Oceania deve proseguire. La controversia si chiuderà mesi dopo con la vista di Ramazzotti al Papa dove riaffermerà il desiderio della nuova società missionaria di servire il Pontefice in qualsiasi luogo desidererà mandarli anche a Corfù. L’8 agosto Reina manda alcune riflessioni scritte sul suo diario a Marinoni. Intitola il tutto “La storia di come abbiamo scelto la nostra Missione” in cui è scritto che “con i consigli e le istruzioni di mons. Batallion, padre Rocher e padre Montrouzier abbiamo scelto la Melanesia e (anche) la Micronesia” I Maristi, nel frattempo, consigliano i nostri di aspettare la goletta Jessie che sarebbe tornata da Woodlark con le notizie dei tre maristi francesi stazionati nell’isola da circa quattro anni. Le notizie saranno buone e Reina potrà scrivere al Franzoni che una goletta si sta preparando per partire per Woodlark e incontrare il prefetto Fremont.
Le isole papuane erano già note trecento anni prima. Il primo visitatore di quelle terre sembra sia stato Jorge de Meneses, che seguendo la rotta di Magellano (1521) arrivò in quelle isole negli anni 1526-1527 mentre era in viaggio verso le Molucche. Il primo tentativo europeo di colonizzazione fu poi fatto nel 1793 da Lieut. John Hayes, un ufficiale della marina britannica, vicino a Manokwari, ora nella parte indonesiana. Furono gli olandesi, tuttavia, a rivendicare la metà occidentale dell’isola come parte delle Indie orientali olandesi nel 1828; il loro controllo rimase nominale fino al 1898, quando furono istituiti i primi posti amministrativi permanenti a Fakfak e Manokwari.
Il 22 settembre 1852 sulla goletta Juene Lucie … (noleggiata a circa 5000 franchi al mese laddove prima della scoperta dell’oro costava solo 1500-2000 franchi. Mons. Marinoni nelle sue lettere scrive che per un viaggio di tre mesi alle isole dei missionari, andata e ritorno, ci volevano 250 sterline al mese = 1200 scudi, quindi circa 3.600 scudi, (1 scudo = 5 franchi) … i nostri salpano prima per Nuova Caledonia, Vanuatu verso la Nuova Georgia, nelle isole Salomone, e poi si dirigono a Woodlark (Muju e ora Marua) dove arrivano alle 9 del mattino, venerdì, 8 ottobre 1852.
L’isola è grande e piatta con poche piante di frutta. Vicino ha altre isole più piccole come Laughlan e Nad e altre più popolose come Guavak e Trobiand. Salerio (su suggerimento di p. Thomassin ) parla anche delle isole Massimme: “due volte all’anno le loro barche arrivano a Woodlark per un piccolo commercio…. sono isole così vicini una all’altra che una volta convertita una sarebbe facile convertire le altre andando di isola a isola con una piccola barca “. (ndr. Il loro nome proveniva da Misima un’isola diventata famosa nei primi dell’Ottocento perché vi era stati trovati molti filoni auriferi.)
Non scesero subito dalla nave che nel frattempo veniva circondata da un nugolo di piccole imbarcazioni cariche di prodotti e di indigeni locali. I nostri sbarcarono, definitivamente, sull’isola il 23 ottobre. Vi trovarono una grande casa costruita dai maristi. Un grande capannone lungo una quindicina di metri e largo forse dieci, ricoperto da una tettoia fatta di ‘tegole’ ricavate da assi di un legno molto duro e resistente. Aveva un piano superiore fatto di un ‘graticcio’ probabilmente di listelli di bambù dove accatastarono le merci trasferite dalla nave. Il piano terra era diviso in celle separate da partizioni costruite con cortecce d’albero, così anche le pareti di tutto l’edificio che naturalmente dalle larghe fessure facevano passare la luce del giorno ma anche pioggia e serpenti durante il tempo dei tifoni.
Isole sempre isole. Navi sempre navi. Un’isola come Woodlark era apprezzata dalla mente perché in fondo assomigliava veramente a una nave sola e autosufficiente nel bel mezzo di un mare dai precisi contorni. Il Salerio si spinge a progettare un futuro anche nella Nuova Georgia, isole Solomone perché molto popolate. I Maristi, tra cui Fremont, della missione di Nostra Signora dei Sette Dolori (ancora il numero sette) eretta nella baia di Guasopa, rimangono molto sorpresi nel vedere il nuovo gruppo di missionari. Dopo la partenza della Jessie non aspettavano altre visite se non entro un anno. I nostri, a quanto pare, non parlano troppo e i Maristi si interrogano sul perché li hanno mandati.
Quali sono le intenzioni di Roma, di Propaganda? Taciturni i nostri consegnano le lettere indirizzate a Fremont. Tra questa quella delle Istruzioni che i tre Maristi leggono e concludono di capirci poco. Allora discutono tra di loro e decidono di non abbandonare il posto. E i nuovi arrivati? A questi ‘gentelmen’ di Milano si darà un territorio proprio. Fremont dice a Reina che Colin vuole che i maristi rimangano sul posto: “Voi, dunque, sarete stazionati in un altro luogo e … devo accompagnarvi io?” Reina risponde di sì. Si stabilisce allora che un missionario italiano rimanga a Woodlark e che il resto del gruppo vada a Rook con Fremont per fondare o rifondare una nuova missione. Poi tutto cambia. Fremont si consulta ancora con i suoi, rileggono per bene le Istruzioni e questa volta decidono di lasciare Woodlark e Rook. Per sempre. Il Prefetto Fremont al Prefetto Reina: “Ora voi siete il Superiore! Ho deciso che dobbiamo ritirarci. Noi Maristi terremo la Missione dell’Oceania Centrale e a voi il resto”. I lombardi sono felici e i Maristi si sentono sollevati e si mettono a disposizione del nuovo Prefetto Reina. Si decide allora di lasciare tre italiani, Salerio, Raimondi e Tacchini, a Woodlark con padre Thomassin (nell’isola da circa sei anni) e gli altri Reina, Ambrosoli, Mazzucconi e Corti andranno con Fremont e fratel Gennade a Rook (Umboi) da dove i Maristi si erano ritirati qualche anno prima. Reina scriverà a Marinoni dicendo che finalmente hanno una missione, anzi due Woodlark e Rook e che se arriva un secondo gruppo si potrà andare in Nuova Guinea o in Nuova Britannia e perché no anche a Ponape (Isole Caroline).
In pratica si cerca di riprendere un progetto già caro ai Maristi: se Umboi diventa cattolica sarà più facile poi accedere alla grande isola di Nuova Guinea e le altre vicine in linea d’aria. I Maristi ci avevano provato nel 1848. Infatti, costretti a ritirarsi dall’isola di San Cristobal, dove diversi missionari erano stati massacrati, approdano nella parte nord di Umboi vicino a un villaggio di circa 400 abitanti chiamato Nurua (urua in lingua locale è il “teschio”) e fondano la missione di San Isidro (il giorno della festa del santo 15 maggio 1848). Ma anche da li saranno poi costretti a ritirarsi a Woodlark nel 1849 dopo l’improvvisa morte per malattia di mons. Collomb e di altri missionari. Tra i sopravvissuti padre Fremont. Isola di per sé molto bella. Vulcanica con un monte alto 1500 metri, ventilata e ricca di vegetazione, fiumi, piante di frutta, animali selvatici era un luogo ideale per rimanerci. Tuttavia, la popolazione già soffriva di febbri malariche e altre malattie, come il vaiolo e la sifilide molto probabilmente contratte dagli stessi nativi durante il piccolo commercio con le isole vicine colonizzate da tempo dagli olandesi e da altre potenze occidentali.
C’è da dire che forse nessuno capì veramente cosa c’era scritto nelle Istruzioni di Franzoni dove in realtà si affermava che nessuna autorità fosse data al Reina non prima di un lungo periodo di training con i Maristi e di adattamento fisico.
Bisogna poi capire quanto era difficile conciliare la rigida cultura cattolica della curia romana e del dicastero di Propaganda Fide in Piazza di Spagna a Roma, fatta di innumerevoli canoni e regolamentazioni da rispettare con gli aspetti più pratici della missione dove era necessario usare creatività e fantasia per capire meglio come immergersi nelle nuove culture, alcune più raffinate o primitive di altre.
Il 19 ottobre Fremont con Reina, Ambrosoli, Mazzucconi e Corti, con il giovane nativo Puarer (forse aveva l’età del ragazzo dell’Albergo del Pozzo, ricordate?) partivano con la Juene Lucie per l’isola di Rook o San Isidro (Umboi) raggiunto dopo tre giorni di navigazione. Cosa strana Fremont ritrova la sua capanna chiusa e intatta. Niente era stato asportato nemmeno gli attrezzi di ferro. La prima cosa che fanno è rendere omaggio alle tombe di mons. Collomb e padre Villien. Da San Isidro possono vedere le alte montagne della Nuova Guinea a ovest e a est la Nuova Britannia e a nordest l’isola di Ritter, un vulcano fumante “che divora uomini … (metafora) di quello che divora le anime” scrive Mazzucconi (lettera 51).
(ndr. Dopo una ennesima eruzione il 13 marzo 1888 il vulcano dell’isola alto 750 metri collasserà in mare provocando uno tzunami con onde di 10-15 metri. Migliaia morirono nelle isole circostanti e nel nordovest di Umboi. Forse anche buona parte della popolazione di San Isidro (villaggi di Akoni e Samarara) venne spazzata via. Oggi i discendenti di quelle popolazioni si trovano nel villaggio di Masele. Rook era un’isola con 7000 abitanti sparpagliati in 70 villaggi sparsi sulle coste dove si parlavano diversi idiomi, come nurcia, cobai e cabele, che i nostri cominciarono ad imparare attraverso piccoli manuali lasciati dai maristi. Ben presto le cose si fanno molto difficili.)
Il 21 agosto 1853 la goletta Supply guidata dal capitano Dalmagne fa rotta per Woodlark e Rook portando gli approvvigionamenti per le due missioni, ma solo per sei mesi perché nel frattempo i fondi degli italiani a Sidney non bastavano più per coprire le spese di navigazione. La corsa all’oro continuava a far lievitare enormemente i prezzi dei generi di consumo, dei trasporti e dei salari del personale marittimo. Ci si indebita. Marinoni manderà nel luglio 1854 casse contenenti abiti, libri e oggetti vari incluse due cambiali a p. Rocher, procuratore dei Maristi a Sidney.
Salerio allora chiede un passaggio sulla Supply con lo scopo di arrivare a Rook e fare un rapporto al Prefetto Reina. Nel viaggio prende appunti sulle isole incontrate Joveney e Trobiand. Arriva il 13 ottobre e trova, tuttavia, i suoi compagni “pallidi e mal vestiti” e al confronto, invece, gli pare di star meglio di loro. Rimane con loro cinque giorni e ritorna a Woodlark con Fremont e fratel Gennade che avevano terminato il training dei nostri in Rook.
Il resto è noto. Dopo il ritorno a Woodlark di Salerio, il 13 novembre 1853 sulla Supply saliranno gli ultimi tre maristi della Melanesia finendo così di fatto la collaborazione con gli ‘italiani’ durata solo un anno. Arriveranno a Sidney il 19 dicembre e Frèmont scriverà quasi subito a Colin dicendo quanto sia difficile mettere missionari di diverse nazionalità nella stessa isola e consiglierà i Maristi di ritirarsi dalle responsabilità verso la missione italiana in Melanesia. Sia l’Istituto di Milano a pigliarsi tutte le responsabilità. Non si capisce poi come mai nessuno dei nostri fosse rimasto a Sidney responsabile della logistica e delle comunicazioni. Tutto rema contro.
A Woodlark il 1853 è un anno tragico. Era iniziato con una grave carestia, seguita da pestilenze (di vaiolo) e guerre tra clan, provocando la morte di un quarto della popolazione dell’isola. I nostri sopravvivono. Dopo la partenza dei maristi Salerio, capo del gruppo, cambia strategia e con Raimondi e Tacchini, falegname, iniziano a costruire un villaggio distante dal resto della popolazione. L’idea è quella di costruire un luogo più consono per le famiglie già istruite alla fede cristiana e tenerle lontane dalle malattie, dalle superstizioni e riti magici che soffocavano ogni interesse nella vera religione. Inizialmente solo tre famiglie saranno accolte nel villaggio di San Michele Arcangelo. Sarà inaugurato alla fine del 1854. Una delle famiglie è quella di Pakò un capo villaggio che sembrava promettere nella fede, stimato dai nostri e dai maristi. Era stato a Sidney per diversi mesi e aveva riconosciuto la superiorità della civiltà occidentale. Ma Pakò era di Laughlan un’isola a 10 miglia est di Woodlark e di punto in bianco decide di ritornare là con la famiglia e la piccola figlia a cui Salerio si era affezionato. Sulla spiaggia Salerio invano si oppone alla partenza ricordando a Pakò tutto quello che avevano fatto e speso per lui. Dopo tre mesi, tuttavia, Pakò ritornerà, ma totalmente cambiato e soprattutto ritorna alle vecchie pratiche di superstizione, magiche e scaramantiche. Le relazioni peggiorano quando la figlia di Pakò muore il 19 marzo 1855. Ancora ammalata Salerio la battezza Maria, ma poi non riesce a salvarla con le sue medicine e muore. Allora Pakò compie, nel bel mezzo del nuovo villaggio, il rito di sepoltura secondo l’usanza dei suoi antenati. Per Salerio è una grave offesa. Oramai Pakò è ritornato al paganesimo e considera una punizione di Dio le morti che si susseguiranno nella sua famiglia e nella missione di Woodlark.
Ancora un poco e i nostri tireranno i remi in barca: in quelle due isole non si può stare. Troppe febbri malariche, poche conversioni e difficoltà ad intendersi con i nativi avidi solo di ferro per le loro asce. Nel gruppo di Rook c’era chi voleva andarsene; senz’altro Mazzucconi. Reina, invece, sentiva il dovere come responsabile di rimanere. Alla fine del 1854 la Jeune Lucie (ora con motore ausiliario a vapore) arriva dalle Salomone, ma senza lettere e notizie per i nostri. Il capitano Blair parla loro della Guerra in Crimea dove Francia, Gran Bretagna e Turchia combattono la Russia. Forse per questo non arrivano notizie? si domandano i nostri. La delusione di Reina è grande: nessuna notizia e nessun nuovo arrivato, allora decide di mandare Corti, già gravemente ammalato, e Mazzucconi a Woodlark. Lui e Ambrosoli li accompagneranno poi vedranno come ritornare, ma Blair fa capire che non può andare a Woodlark, perchè deve fare rotta di nuovo per la Nuova Britannia, le isole Solomone e rientrare a Sidney. Allora Reina decide di far salire solo Mazzucconi (perchè Corti no? Probabilmente troppo ammalato, morirà il 17 marzo 1855) con il compito di annotare informazioni sulle popolazioni delle isole visitate, nel caso si cambiasse missione, e una volta a Sidney provvedere per una goletta carica di provviste per le missioni di Woodlark e Rook e far salire su questa anche i nuovi arrivati dall’Italia. Mazzucconi arriverà a Sidney il 20 aprile 1855.
Intanto a Woodlark la delusione si era aggravata con l’arrivo della goletta Phantom che porta la corrispondenza e la lettera dove è scritto che non ci saranno nuovi missionari per la Melanesia e Micronesia. Bisogna avvisare quelli di Rook e allora Salerio sale sulla stessa goletta che nel suo viaggio sarebbe passata da quelle parti e vi arriverà l’8 maggio 1855. Là apprende della morte di Corti e della partenza di Mazzucconi. Reina si consulta con gli altri compagni e insieme decidono di salire sulla goletta e dare l’addio a San Isidro per concentrare le forze in Woodlark. Vi arrivano sempre sulla Phantom il 17 giugno. Ma nella missione già tirava aria di arresa. In pochi giorni i nostri decidono di lasciare anche Woodlark, senza attendere l’arrivo di Mazzucconi. È la fine e i primi di luglio tutti e cinque partono per Sidney. La partenza della Phantom coincide con la morte del vecchio capo Pakò. La nave rimane ferma nella baia per due settimane per riparazioni e i passeggeri sono testimoni di cosa accade nell’isola: Pakò aveva lasciato “un nugolo di piccoli eredi” e le contese scoppiano prima nella baia di Guazup e poi in quella di Lavat “Finiranno per autodistruggersi”, commenta il Salerio. La Phantom arriva a Sidney il 23 agosto 1855 con 5 missionari, i nostri che sbarcano il giorno dopo.
Il 18 agosto, cinque giorni prima, Mazzucconi era ripartito per Woodlark (e verso il suo martirio). Per mesi non si avranno più notizie di lui e solo l’anno dopo ci cercherà di sapere in che condizioni stava. Perché non l’hanno fatto prima? Probabilmente non c’erano risorse per noleggiare subito una goletta per circa 1000-1200 sterline; se ve ne erano poi disposte a fare un paio di mesi di viaggio senza cargo e guadagno! Solo il 14 aprile 1856, otto mesi dopo, Raimondi potrà partire per Woodlark con un ‘schooner’ il Favourite e ritornerà a Sidney il 13 giugno con la notizia dell’uccisione di Mazzucconi e il massacro di tutto l’equipaggio della Gazzelle.
Il massacro verrà raccontato da Raimondi e dai marinai Barrack e Bennett sul Sidney Morning Herald il 14 giugno 1856 e nei giorni (e anni) successivi ritornerà frequentemente sulle pagine dei quotidiani locali anche perché la reazione del governo britannico sembrò troppo tardiva. In realtà, sembra non essere ancora chiaro a che nazione appartenesse l’isola di Woodlark: essendoci stati missionari francesi sembrava un problema della Francia, alcuni poi discutevano se per caso l’isola non era, addirittura, un possedimento della chiesa Romana Cattolica, cioè del Vaticano. Tuttavia, nelle lettere di proteste dei lettori al Sidney Morning Herald prevaleva ricambiare il torto con una punizione esemplare, anche perché l’equipaggio della Gazelle massacrato era britannico (altri due equipaggi australiani erano stati barbaramente uccisi nelle vicine isole). Solo dopo tre anni dal massacro, i primi di settembre del 1858, la H.M.S. Iris, nave militare inglese, farà sbarcare prima i suoi soldati sull’isola, i quali bruceranno tutte le case dei nativi (descritte come ben fatte migliori di quelle in altre isole, forse sul modello Tacchini?) e solo dopo la distruzione delle abitazioni verrà spiegato ai nativi il perché di quella punizione. C’è da dire che il massacro della Gazzelle rimarrà nell’immaginario dei britannici australiani per lungo tempo tanto che in un articolo del Morning Herald del 21 maggio 1857 le ‘brutalità’ dei cinesi verso un altro equipaggio (un vaporetto inglese il Thistle era stato bruciato e la cirma massacrata) saranno paragonate a quelle perpetrate a Woodlark (“there is a little difference between the Chinese and the natives of Woodlark Island”, è scritto nell’articolo).
In Italia alla tragica sorte del missionario ucciso l’emozione è grande. Prevale tuttavia la figura del ‘sacerdote’ tanto da far dimenticare i due laici catechisti, uno già morto, Corti, ‘martirizzato’ dalle sofferenze. Anche il superiore mons. Marinoni parlando della morte di p. Mazzucconi in una lettera del 25 settembre 1856 scriverà che: “Egli era uno di quei cinque primi missionari, che nel 1852 andarono in Oceania”. Invece erano sette; c’erano anche due laici ‘catechisti’. Forse un lapsus.
Nelle due isole, in quei due anni la vita dei giovani missionari lombardi, tra catechesi, preghiere, celebrazioni e digiuni quaresimali, ha avuto anche momenti di serenità. Forse in alcuni momenti di ‘incoscienza’ saranno andati in giro senza i neri abiti talari (lunghi sino ai talloni con decine di bottoni di fronte; del resto, dovevano testimoniare che la carne è morta in nome di Cristo, insomma un ‘sudario’ che doveva tenere ben sepolto il proprio corpo), soprattutto nei giorni di inerzia, mentre le notti calde e umide venivano trascorse sonnecchiando nel selvaggio silenzio lasciandosi cullare dal monotono mormorare delle onde alla spiaggia. Una vita diversa da quella affannosa lasciata per sempre in Lombardia. Erano liberi di realizzarsi. Il tempo era tempo: “.. eravamo senza orologio, e guardavamo il sole quando era sereno, quando pioveva poi, guardavamo niente”. “Viviamo, vegetiamo, soffriamo, ridiamo…”, scriverà il Raimondi. Salerio disegnava, Mazzucconi scriveva, Reina organizzava, Tacchini piallava e un po’ tutti rileggevano Dante e Manzoni. Per insegnare ai bambini usavano la spiaggia dove con bacchetti di legno disegnavano sulla sabbia cose e animali e si facevano dire i nomi. C’era anche carta e lapis.
Interessante questo dialogo, riportato da Mazzucconi, dove il foglio di carta appare come uno specchio parlante, oggi diremmo, un monitor, che “guardando ripete “:
“Perché non scrivi anche la mia parola? “
“Perché l’ho già scritta” (sulla carta)
“E quella tela (foglio di carta) te le dirà poi bene le cose? “
“Sì, tutto ciò che io vi metto, quando io la guardo, essa me lo ripete “
Poi, nei giorni di buona salute, dopo le giornate delle ricorrenti febbri, il lavoro manuale: dissodavano terreni per le loro piantagioni di granoturco e costruivano capanne. Reina intanto lavorava a un dettagliato ‘regolamento‘ per il missionario sul campo dove si distinguevano i doveri verso Dio, i confratelli e gli indigeni. Nei suoi rapporti dalla missione parla del danno fatto dalla colonizzazione occidentale che tuttavia aveva il vantaggio di mettere i ‘selvaggi’ di fronte a una civiltà più progredita “sì che li stimoli alla curiosità del progresso “. Al primo impatto le isole furono considerate paradisiache abitate da selvaggi facili da ammaestrare. Ben presto, tuttavia, la vita di ogni giorno le trasformò in luoghi malsani per ‘colpa’ delle vicine mangrovie considerate ricettacoli di malaria. Più tardi si radicò nella mente dei missionari la certezza che i selvaggi non si sarebbero mai convertiti. Del resto, gli stessi ‘selvaggi’ non capirono il motivo dell’arrivo dei missionari: gente di pelle bianca che portava via loro, si potrebbe dire, il pane dalla bocca:
I nuovi forestieri sono ancora qui? Aveva domandato a padre Thomassin un figlio del capo.
Sì, aveva risposto il padre, e sono venuti per vedere se volete fare giudizio
Ma …. mangiano, nevvero?
Sicuro che mangiano!
“Allora, se quando ritorna la nave, non se ne vanno, bisognerà mandarli via”. E fu solo quando il padre marista assicurò che non avrebbero mangiato del suo, che quegli si acquetò, non senza però domandare: “Hanno molto ferro, molte scuri, molte stoffe?”
I nostri non erano preparati ad affrontare una cultura ‘ambigua’, altamente competitiva. Il ‘progresso’ era possedere il ferro, a tutti i costi, per migliorare i loro strumenti di lavoro della terra e di guerra. L’autorità sugli altri si conquistava con la forza e l’astuzia. Il nemico andava visto palpitare morente da vicino ed inveire contro di lui era un modo per acquistare maggior coraggio. A Woodlark c’erano circa 2000 abitanti di etnia melanesiana.
Organizzazione totemico-matriarcale. Matrimonio non libero, arrangiato dai genitori, ma poi si poteva divorziare. I villaggi erano dominati da capi in perenne guerra con altri. Il ‘furto’ era legalizzato. Con i primi stranieri-missionari usavano l’astuzia per farsi dare del ferro per sostituire le loro asce di pietra. C’era invece grande rispetto verso le donne e gli anziani. Poi ospitalità, saluti, diritto di precedenza, pulizia, cura dei sepolcri e spirito di sopportazione. La religione era la credenza in un dio buono e un altro cattivo e il destino delle ‘anime’ era unico (indifferentemente se buone o cattive). Si praticava l’infanticidio che, con le guerre tra villaggi, manteneva basso il numero degli abitanti. Nell’isola di Rook (Umboi o Siassi), gli abitanti erano più numerosi e divisi in tre etnie, ciascuna con lingua propria: Kovai, Mbula e Arop-Lokep. In San Isidro si parlava Lokep, dialetto parlato anche nelle isole vicine di Long e Tolokiwa. Non era praticato il ‘furto’ come a Woodlark , ma similmente il matrimonio era monogamo con possibilità di divorzio. Vigeva la circoncisione praticata sui ragazzi e la purificazione della donna dopo il parto. Anche qui imperversava l’infanticidio, il neonato non voluto (secondo un modo di calcolare molto complesso) soppresso dalla madre e sepolto dal padre sotto la casa. Una religione a sfondo animistico, senza divinità supreme, ma solo dei geni malefici (marcabi), che bisognava placare con offerte. In caso di morte si doveva individuare il responsabile per poi sopprimerlo.
C’era anche la pratica della antropofagia. Gli isolani erano inclini al cannibalismo e i nostri, probabilmente, avevano letto il diario di Antonio Pigafetta: “Li uomini de questa isola sono Gentili e non hanno re; mangiano carne umana; vanno nudi, così uomini come femmine, ma solamente portano un pezzo de scorza larga due diti intorno alle sue vergogne. Molte isole sono per quivi, che mangiano carne umana. Li nomi de alcune sono questi: Silan, Noselao, Biga, Atulabaon, Leitimor, Tenetum, Gondia, Pailarurun, Manadan, e Benaia. Poi costeggiassemo due isole, dette Lamatola e Tenetuno, da Sulach circa X leghe.” ed è, una semplice supposizione, che Carlo Salerio sia stato testimone di questa pratica e poi si sia ispirato a un dipinto del Genovesino, La Maga, (o al libro di Hansel e Gretel del 1815) quando ritornando in Italia si metterà a disegnare un schizzo per un quadro sulla Madonna Salvatrice di questi bambini, o cannibali, in cui appare “un infante cotto allo spiedo”.
Ma il cannibalismo era più che altro una orrenda bosinata tribale che serviva a impossessarsi della forza del nemico ucciso quando, attaccato o respinto, invadeva un’isola o un territorio non suo. Sta di fatto che probabilmente inorridiva i nostri il modo con cui queste genti manipolavano corpi e pezzi di uomini, donne e bambini come qualsiasi altra carne animale, pratica certo non ancora scomparsa in questo pianeta se nell’isola di Mindanao, durante l’uccisione di Tullio Favali nel 1985, uno degli uccisori addenterà parte del cervello dell’ucciso. Tutto questo non poteva non gettare una luce sinistra sul selvaggio e considerarlo una creatura demoniaca da redimere. L’alternativa era di renderlo, per mezzo della conversione, un buon selvaggio, docile e buono di natura come fece Santa Rosa da Lima, patrona del Perù (ma anche, in quel tempo, delle isole Filippine). Impresa impossibile per i nostri che cominciarono a cercare altre isole meno terribili da redimere.
C’è da aggiungere che trovarono isole all’interno delle quali ogni villaggio era un’isola a se, con i loro riti, modi di esprimersi e leggi tribali proprie e arroganti. Diversa dall’idea lombarda acquisita di essere parte di una comunità solidale dove i propri successi dipendono da una società che ti aiuta con scuole e lavoro. Sarà a loro apparso dissacrante il delimitare dei confini tribali con teschi e ossa umane, ritenute talmente potenti spiritualmente che chi li asportava doveva essere ucciso. Demoniaco il modo di danzare a occhi spalancati, lingua fuori e mani vibranti. Orribile la caccia del ‘colpevole innocente’ quando qualcuno moriva per cause naturali o accidentali; alla fine anche i missionari bianchi furono accusati di trasmettere magicamente la morte. In fondo i nostri erano cresciuti nella cultura europea del tempo fatta di razionalità e principi di non-contraddizione ritenuta la base per sviluppare educazione e tolleranza nelle società più arretrate. Nelle isole invece scoprirono, almeno così sarà apparso a loro, una coesistenza di piccoli insediamenti tribali galleggianti nel caos, marasma, governato da forze irrazionali e disumane. L’idea stessa di religione che i nostri avevano appreso, e per la quale erano disposti a dare la vita, era il possesso di verità evangeliche, ma come spalmarla in luoghi irrazionali? Si accorsero di essere impreparati. Eppure, erano giovani e, distanti dai luoghi in cui erano cresciuti, potevano assaporare la sensazione della libertà connessa al desiderio di scoprire le radici della umanità, all’amore delle proprie opzioni personali, all’energia vitale che vuole aprirsi e apre una strada.
I nostri non ebbero molto tempo per approfondire i rapporti contrattuali che da chissà quando, forse migliaia di anni, si erano instaurati tra le popolazioni di queste isole. Nessuno le aveva ancora studiate seriamente. Se compresi e studiati avrebbero permesso loro di acquistare quella minima autorità intellettuale per imporsi e guadagnare rispetto dalla popolazione locale. Soprattutto non poterono conoscere il ‘kula’, una istituzione estremamente complessa, di cui si è venuto a conoscenza solo all’inizio del secolo scorso e che ancora oggi da del filo da torcere a studiosi ed antropologi. Il ‘kula’. varia leggermente da isola a isola. Comunque, il tema comune è lo scambio ‘ritardato’ di conchiglie di valore tra partner (i muli) di diverse comunità “, trasportate con apposite piroghe decorate. Questi scambi sono estremamente competitivi nel senso che i leader delle comunità o zona geografica fanno di tutto per impossessarsi provvisoriamente di ‘oggetti antichi estremamente preziosi’ prima di passarli, ritardando il più possibile lo scambio, agli altri partner. Gli stessi preziosi sono, infatti, poi destinati a passare lentamente da un proprietario (muli) all’altro, da un’isola all’altra, in un ‘anello’ (geografico) composto dalle isole di Woodlark, Marshall Bennett, Trobriands , D’Entrecasteaux orientale, Engineers e indietro a Woodlark. Non c’è un punto particolare di inizio o un centro, sebbene alcune comunità che fanno parte di questo sistema “kula” abbiano più rinomanza storica che altre. Egualmente hanno uno status maggiore i singoli che sono riusciti a possedere per lungo tempo i pezzi ritenuti i più pregiati.
Che dire poi del “vele” a cui si dava la colpa se uno moriva improvvisamente in circostanze strane. Che assomiglia molto allo strano malefizio portato in giro dagli untori così come descritto dal Manzoni: “Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza dei mali, abbracciavano più volentieri quella credenza che la collera spira a punire, e … le piace più attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far sue le vendette, che di riconoscerli da una causa, contro la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi”. Possedere il “vele” era molto più peggio del povero vecchio considerato untore beccato nella chiesa di Sant’Antonio a Milano. Solo alcuni anziani delle isole conoscevano e possedevano il “vele” usato come malefizio. Consiste in un minuscolo paniere o sacchetto intrecciato con scorza d’alberi e contenete pietruzze, ossa umane, capelli, pezzetti di legno durissimo, reste di un pesce velenoso: il tutto asperso con il fiele di un serpente. Chi possiede il vele non lo rivelava a nessuno e lo nascondeva in un luogo a lui solo noto. Quando si giurava vendetta a qualche nemico si chiedeva l’aiuto del vecchio shamano che andava a prendere il cestello e si dirigeva verso la persona oggetto del malefizio la quale appena vedeva il cestello capiva di essere stato colpito dal sortilegio e veniva preso da tremiti, convulsioni e poi morire. (p. Rinaldo Pavesi)
Naturalmente per i nostri missionari questo era opera delle forze demoniache, essendo noto a loro e alla chiesa che il demonio avesse maggior potere d’azione tra i popoli infedeli che non in mezzo alle popolazioni cristiane.
Forse i capi tribali di Woodlark non riuscirono a capire le intenzioni dei missionari, e forse questi, senza saperlo, cercavano di ostacolare uno scambio simbolico di grande prestigio, il Kula, ritenendolo, demoniaco, pagano e insignificante. Del resto, la teoria di Darwin sull’evoluzione e la naturale selezione non era ancora apparsa anche se Alfred Russel Wallace ne stava gettato le basi proprio mentre era dalle parti della Papua Nuova Guinea a Dorei Bay. La Chiesa Cattolica non era ancora stata stimolata a formare suoi etnografi e antropologi per capire meglio come introdurre il messaggio evangelico.
(ndr. Tra gli oggetti mandati dai nostri dall’isola di Woodlark, c’era un ornamento (ndr. A suo tempo il PIME aveva raccolto molti reperti spediti dai suoi missionari. In maggioranza andati persi o consegnati ai musei di Milano). Una targhetta indicava quell’ornamento come:” Ornamento di prora delle piroghe delle isole Woodlark e circonvicine. L’effige che sta in cima si chiama “man” (genio della navigazione) Lo si arma ordinariamente con gran quantità di conchiglie (30)/ Benchè non sia qui indicato si sa che venne donato in cambio di una pelle d’anitra al prof. Pigorini. Io l’ho visto a Roma in maggio 1890 nel museo preistorico. È un pezzo mirabile, grande, dipinto a colori come il n.143 (IL?) 24 gennaio 1892 p. Castelfranco. (scritto nella pagina a fianco): dell’ordinamento di prora al N. 154, venne fatto, per ordine del prof. Sardelli, e per cura del prof. Castelfranco residente a Roma, un modello fedelissimo, collezionato dal prof. Pigorini, modello esistente oggi al Museo Civico di Milano (?). Datato il 10 marzo 1892”)
Fine e nuovo inizio
Storia triste? Forse. Accentuata da tragedie e dalla mancanza di un finale felice. Un abisso separava i bianchi intellettuali lombardi dai corposi abbronzati indigeni papuani. Forse quello che cercavano, selvaggi pronti ad abbracciare la fede cristiana, non c’era più. Certamente lo spirito dei giovani missionari era indomito ma il costo della vita materiale in quelle isole era diventato troppo alto. Non potevano essere contenti. La solitudine e l’infelicità avvolgeva tutto. Si sentivano, immaginiamo, come naufraghi su isole risucchiate da pazzeschi maelstrom senza senso. Un’isola ben identificata ora appariva come un oceano irrazionalmente sconfinato. La prima missione naufragò: Luigi Corti morì di malaria il 7 marzo 1855 e Giovanni Mazzucconi fu ucciso a Woodlark nel settembre 1855 mentre rientrava nell’isola da Sidney, preoccupato per la fine degli approvvigionamenti di quella missione, senza sapere che, come estremo rimedio, i suoi compagni avevano invece l’avevano del tutto abbandonata.
Già Mazzucconi interessante alcune pagine del suo diario (Dal libro Sangue sulla Gazzelle di p. Suigo p.240-241) mentre viaggiava da isola a isola, da Rook verso Sidney:
Nell’Aprile 1855 la nave su cui viaggiava verso Sidney, Juene Lucie, dopo aver toccato la Nuova Guinea e la Nuova Britannia, si dirigeva verso le isole dell’Arcipelago di Bismarck e a p. Giovanni si presentava una splendida occasione per effettuare il suo piano di studio e di osservazioni su quelle sconosciute isole e sui loro abitanti. Quando la nave ancorava in qualche porto, egli scendeva in compagnia dei marinai, avvicinava i nativi, osservava, annotava tutto ciò che poteva interessare usi, costumi, lingua, clima, posizione geografica. Era forse la prima volta che un europeo si prendeva la briga di sollevare con tanto interesse il velo misterioso che, da quando quelle isole sperdute nella immensità degli oceani esistevano, nessuno mai aveva osato e potuto infrangere.
Ecco quanto raccontava in una sua lettera ai genitori: ” Vi dovrei dire, poi, che ad Ontongiava, dodici isolette vicine alla linea dell’Equatore, trovammo un popolo che non ha alcuna idea dell’acqua dolce! Il nostro Buon Dio non diede loro acqua perché sono isolette piccolissime e non altro che sabbia di corallo; si che anche l’acqua piovana dissecca in un momento. Ma invece dell’acqua la Provvidenza diede loro tanti frutti di cocco che fatto un compunto approssimativo non consumano in un anno la quarantesima parte del prodotto naturale, e di questo cocco bevono e mangiano; e nei molti giorni che vi stammo, feci così anch’io. Quella gente povera mi videro la crocetta al collo e mi domandarono cosa fosse. Io risposi: faman! Che vuol dire: mio padre nella lingua di Rook; e per accidente questa parola l’avevano anch’essi e la compresero. Dissi, avanzando, che era anche il loro padre; mi fecero segno se era padre anche di quelli della nave. Risposi: di tutti. La meraviglia crebbe. Mi domandarono dove fosse. Mostrai il cielo e dissi anche: dappertutto!”
Dall’arcipelago di Bismarck, la nave si spostò poi verso oriente raggiungendo le Salomone; e dopo aver percorso le coste orientali di questo Arcipelago, i viaggiatori rientrarono nel Mar dei Coralli. Di tutte quelle isole che il desiderio di commercio spingeva il capitano a visitare, p. Giovanni fece relazione particolareggiata di capitale interesse ai fini dell’espansione evangelica e di non piccolo valore scientifico, uno studio che, tuttavia, andò perduto nel settembre di quel 1855 il giorno della sua uccisione nell’isola di Woodlark.
A Sidney saputo del fallimento si fanno avanti vari vescovi. Alla chiesa cattolica australiana (il paese allora contava 700.000 abitanti e il 20% era cattolico) era stato dato lo stesso stato giuridico della chiesa anglicana solo nel 1836 (Il primo prete cattolico in Australia fu padre James Dixon, un detenuto, trasportato là nel 1798 dopo la ribellione in Irlanda; gli fu permesso di celebrare la messa solo nel 1803. Le autorità di allora vedevano un’assemblea di irlandesi in chiesa come un atto di cospirazione per cui sino al 1836 era quasi proibito celebrare la messa) e c’era una grande richiesta di preti per la forte immigrazione di irlandesi nel nuovo continente. Il 13 agosto 1855 mons. Batallion informa il Marinoni che vorrebbe Reina e altri nelle Figi mentre mons. Pompallier a Auckland in Nuova Zelanda (poi terreno dei maristi dove fecero grandi conversioni in Wellington a Christchurch – ancora là presenti) e infine mons. John Bede Polding, benedettino, una missione in Australia, la Port Curtis Mission (ora Gladstone, Queensland, dove si supponeva fossero sbarcati, il 14 maggio 1606, i primi missionari spagnoli assieme all’esploratore Pedro de Quiros che aveva preso possesso del nuovo continente in nome del Pontefice Romano e Universale). I nostri sono indecisi Raimondi è in favore di Port Curtis, e Reina per Manila e alla fine opteranno per quest’ultima. In Australia rimarrà solo Ambrosoli, assegnato dal vescovo il 3 maggio 1856 al Saint Vincent Convent of the Sisters of Charity at Wooloomooloo a un chilometro e mezzo da Sindney e poi trasferito nel monastero Benedettino di Subiaco (Australia Occidentale).
In tre (senza Salerio partito per Londra il 2 Febbraio 1856 a bordo del Waterloo un vascello arrivato a Sidney un paio di mesi prima) salparono con il Granite City per Manila dove arriveranno il 1 ottobre 1856 (o 31 settembre per Tragella ved. Miss. Estere 1:232 …. ma impossibile perché quel mese ha solo 30 giorni!), con Puarer il catecumeno di Woodlark che verrà poi battezzato il 27 dicembre a Manila con il nome di Giovanni in memoria del Mazzucconi. Lì incontreranno il Prefetto Apostolico per il Borneo, Cuarteron e due nuovi missionari del Pime, Riva e Borgazzi partiti da Milano il 19 febbraio 1855. Con loro alloggeranno prima presso un monastero degli Agostiniani e poi in una comunità di Francescani a un paio di chilometri da Manila (San Francisco del Monte).
Cuarteron propone di mandare i nostri rimasti nelle isole di Menado e Ternate dopo negoziati con Olandesi e Musulmani, ma poi opterà per Labuan in Borneo. Il 12 marzo 1857 una piccola flotta di tre navi guidata dalla Martires de Tun-Kin, una goletta, salpa dal porto di Manila con a bordo il Prefetto Apostolico Cuarteron, seguono due imbarcazioni a vela, cutter, Rifugium Peccatorum e Consolatrix Afflictorum con al comando, rispettivamente, Antonio Riva e Ignazio Borgazzi. Il resto della spedizione, oltre ai vari equipaggi, comprendeva anche Reina, Raimondi, Tacchini e Puarer. Nel passare tra l’isola di Mindoro e quella di Panay, incontreranno però un terribile tifone che danneggerà l’imbarcazione costringendole ad approdare, per riparazioni, a San Jose de Buenavista, Antique, nella parte occidentale di Panay. Ripartiranno il 4 aprile 1857 per Labuan, imbarcando giovani marinai del luogo, ragazzi tra i quindici e i diciotto anni, e arriveranno a Port Victoria il 14 aprile. Rimarranno lì sino al febbraio 1858 quando Cuarteron riuscirà a mettere insieme una spedizione per il nord della Nuova Guinea. Con un veliero, brigantino, il Pacifico, comperato ad Hong Kong e arrivato a Labuan capitanato da Manuel fratello di Cuarteron, salperanno il 25 febbraio 1858, via Singapore, lasciando Riva e Borgazzi a Labuan, con l’obiettivo di raggiungere l’isola di Mansinam (le Massimme già menzionate dal Salerio) nella baia Doreh Bay, (di fronte a Manokwari) nel nord della grande isola della Nuova Guinea.
Una spedizione al costo di 36.500 franchi. A Mansinam lavoravano già dal 1855 due missionari protestanti luterani tedeschi Johann Geissler e C.W. Ottow della Goszercher Missionsverein arrivati là il 5 febbraio 1855 e l’intenzione era di incontrarli prima di fondare una missione cattolica.
(ndr.1 Nell’agosto del 2014 fu inaugurata a Mansinam, dall’allora presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono una statua di Gesù Cristo alta 15 metri sorretta da quattro pilastri di cemento decorati con ornamenti papuani. ndr.2 Qualche anno più tardi arriverà nell’isola una spedizione italiana guidata da Luigi Maria D’Albertis che avrà con se una macchina fotografica a lastre). Reina, come prefetto della Micronesia, oltre ai due avrebbe dovuto incontrare anche Alfred Russell Wallace, che era nella Doreh (Dorei) Bay in quei mesi per studi, il naturalista inglese che con Darwin aveva pubblicato la teoria della “sopravvivenza del più adatto” nella origine della specie umana. (per Darwin un processo puramente biologico per selezione naturale ma per Wallace era invece non-biologico progettato da una mente superiore).
Mentre sono a Singapore arrivano invece tre lettere da Milano da cui si ordina di abortire una seconda missione verso la Papua e di dirigersi invece verso Hong Kong dove arriveranno il 15 maggio 1858. A Manila era stazionario anche padre Francesco Buffa, arrivato da Hong Kong nel 1857 che poi rientrerà in Italia a metà gennaio del 1859. Riva e Borgazzi da Manila andranno a Hong Kong il 9 settembre 1860. Borgazzi ritornerà a Manila nel (1862?) dove morì quasi dubito assistito dalla Suore della Carità (?). Riva, che, come abile architetto, aveva iniziato la costruzione di una grande chiesa a Labuan, verrà trasferito a Hong Kong, dove progetterà il Convento Italiano delle suore Canossiane, un edificio molto apprezzato dalla popolazione locale (Daily Press Giugno 1861)
Il destino del primo gruppo era segnato: Salerio rientrato ammalato a Milano si dedicherà alla fondazione dell’Istituto delle Suore della Riparazione. Tacchini lascerà il gruppo e si sposerà a Hong Kong con una giovane cattolica cinese di origini portoghesi. Solo Raimondi, poi primo vicario apostolico di Hong Kong (tra l’altro a Manila aveva imparato la lingua filippina-malese-tagalog), avrà la gioia di vedere i frutti del suo lavoro e peregrinare in Asia (e anche quella di aver contribuito alla fondazione, nel 1874, degli SVD (Società del Verbo Divino) che in seguito sarà impegnata, non solo in campo missionario, ma anche in quello antropologico).
Reina ri-assegnato a Hong Kong come semplice ‘missionario apostolico’. La sua prefettura Melanesia e Micronesia era stata soppressa. Ammalato tornerà in Italia nel 1860 per morire l’anno dopo: il suo funerale si terrà in San Calocero il 16 marzo 1861 alle 9,30 del mattino esattamente nove anni dopo, giorno e ora, la cerimonia di partenza dei primi per l’Oceania (nello stesso anno, il 24 settembre, morirà anche mons. Ramazzotti la ‘mente’ del PIME).
Le isole Figi sarebbero state le migliori: nel 1860, sotto la guida dei maristi, potevano già contare circa 3000 catechisti; ma tra due vie bisogna sempre sceglierne una! La prima missione del PIME fu dunque un fallimento, ma lo spirito ‘apostolico’ e il desiderio di scoprire isole nelle quali sperimentare la prossimità, si era già trasmesso ad altri giovani preti e laici italiani che, praticando la navigazione, iniziarono a battere sempre più numerosi l’emisfero orientale del mondo. Per i primi partenti Corfù sarebbe stato un’isola più comoda, anche Ceylon non sarebbe stato male, meglio le Caroline di padre Cantova milanese DOC, o le Figi o la Nuova Zelanda, ma mai si pentirono di aver scelto isole sbagliate e trovarono la propria stabilità in una successiva e breve ma sofferta trasformazione: da isole circoscritte a vasti e nuovi territori dai contorni incerti in cui dimorare, lavorare e morire. Una storia che continua tutt’oggi fatta di conflitti e relazioni con gli altri, e che altri!! Alcuni conflitti si ricompongono per la buona volontà dei dialoganti altri non troveranno mai una soluzione. Collisioni di isole più che di orizzonti.
Woodlark rimarrà isolata sino all’agosto del 1885 quando la goletta del Queensland Labor Trade rimpatrierà nell’isola due lavoratori nativi da Sidney, non senza pericolo perché anche in quel caso i marinai sulle scialuppe saranno circondati dai nativi con cattive intenzioni e solo sbarcando i due pacificamente se la caveranno. Rook sarà, invece, visitata dalla H.M.S. Dart il 2 novembre 1885 e nel libro di bordo gli indigeni sono descritti come pacifici, senza colpe alcune, anche perché raramente molestati dai ‘bianchi’. Ai marinai poi verrà raccontata la strana storia di un bianco (che per i marinai non poteva essere che “un gesuita “) arrivato da Woodlark che era vissuto e morto là.
Nel 1902 fratel Alessio dei missionari del Sacro Cuore visitò Woodlark, che lui dice che significa “allodola dei boschi” (Missioni Cattoliche 6 aprile 1928). Entrò nella baia di Suloga con un veliero chiamato S. Andrea, chiamata anche baia della Natività da mons. Collomb. Incontra un vecchio “selvaggio” di 65-70 anni e rimase turbato quando egli gli ricordò della uccisione di un missionario “papi”, cioè cattolico. Fr. Alessio scrive pure che nel luglio del 1890 Sir William Mac Gregor visitò Woodlark e allora seppe i nomi di alcuni missionari che erano stati sull’isola: Epikopo Tomasan, Pernarosi, Perpereno (Fremont), Dukroti, Angelo, Dunkororo, Ikos e Tarapinar. Probabilmente tutti Maristi e del PIME solo Angelo Ambrosoli come se gli abitanti dell’isola avessero voluto cancellarli dalla loro memoria.
I nostri del PIME ritorneranno in Papua Nuova Guinea nel 1981 ma solo nell’isola di Alotau nella Baia di Milne a circa 300 km in linea d’aria da Woodlark e molti di più da Umboi.
———————————————–
Nel 1897 in Woodlark arrivarono i missionari della Chiesa Metodista (Wesleyan) ed ebbero più ‘successo’ tanto che oggi la maggior parte degli abitanti dell’isola appartengono alla chiesa protestante (United Church). Tuttavia la presenza ‘occidentale’ nell’isola potrebbe aver determinato la riduzione di due terzi ( per nuove malattie e per l’introduzione di stili di vita europea ) della sua popolazione: da circa 2200 nel 1850 a 800 nel 1915. Oggi la popolazione di Woodlark si è attestata attorno alle 2000 unità.
(Luciano)
N.B. Notizie prese in buona parte dai libri:
* The Founding of the Roman Catholic Church in Melanesia and Micronesia, 1850-1875. Ralph M. Wiltgen,
* Dai tre volumi contenenti scambio di lettere (dei primi del PIME) 1850-1855,
* Dal primo volumone di padre G. Brambilla, PIME,
* Dal libro di p. Domenico Colombo, EMI, Lettere di mons.Marinoni
……e da altre incontaminate sorgenti storiche.