L’anno scorso, influenzato dalla serie di film “I Pirati dei Caraibi”, mi era venuto in mente il ‘Corsaro Nero” di Emilio Salgari e nel cercarlo mi sono imbattuto in un altro libro: Le Stragi delle Filippine (1897) sempre dello stesso autore. Le prime pagine di questo romanzo (anche storico perché’ la trama si snoda durante gli anni della lotta per l’indipendenza del popolo filippino dalla Spagna) descrivono un fatto terrificante che ancora oggi ritorna spesso sulle prime pagine dei giornali: attacco suicida di terroristi islamici.
Dal CAPITOLO I – LOS JURAMENTADOS DI SOLU’
– I “MOROS”!… I “MOROS”!…
Questo grido rimbomba per le vie di Manilla, opulenta capitale delle Filippine, come un colpo di tuono.
Una fiumana di gente, pazza di terrore, coi visi pallidi, gli occhi stralunati, si scaglia come un uragano attraverso il magnifico ponte, a dieci grandi arcate, che unisce la Ciudad, ossia la città spagnuola, ai sobborghi popolosi di Binondo e di Santa Cruz, che formano la cosí detta Città Chinese. Quei fuggiaschi si spingono l’un l’altro, urlando, si rovesciano, si calpestano, ma si rialzano e riprendono la corsa vociando sempre:
– I moros!… I moros!…
Vi sono uomini, vi sono donne, vi sono fanciulli; vi sono spagnuoli, tagali, chinesi, negozianti, marinai, facchini, barcaioli del Passig e perfino soldati, ma tutti fuggono come se avessero alle spalle una banda di fiere assetate di sangue. Delle donne, travolte da quella marea umana che ha un impeto irresistibile, cadono, ma quella fiumana vi passa sopra; dei fanciulli, sfiniti o malamente urtati, scompariscono fra quei corpi e rimangono stesi al suolo fracassati, insanguinati, ma chi si occupa di loro in quel momento?… Tanto peggio pei deboli!…
La folla, attraversato il ponte, entra nella Ciudad, rovesciando le sentinelle e le guardie doganali che stanno dinanzi ai bastioni e si dilegua per le vie, urlando sempre:
– Fuggite!… Si salvi chi può!… I moros!… I moros!…
Le porte delle case si chiudono precipitosamente con fracasso; i negozianti abbassano d’un colpo solo le griglie di ferro che proteggono le loro botteghe; gli erbivendoli lasciano i loro banchi e si salvano in tutte le direzioni senza piú occuparsi delle loro ceste ripiene di frutta squisite e di vegetali d’ogni specie; i merciai ambulanti gettano all’aria le loro casse e si precipitano là dove scorgono ancora qualche porta aperta; i cocchieri pubblici sferzano i cavalli a sangue e corrono dietro alla folla, senza badare se le ruote urtano qualche disgraziato rimasto indietro, o se lo travolgono.
Le finestre invece si aprono e voci impaurite chiedono affannosamente:
– Dove sono?…
– Vengono da Binondo!… – rispondono alcuni fuggiaschi, ma senza arrestarsi.
– Ma chi?
– Los juramentados!
– Por la santa Virgen!…
Tutti quegli uomini, che sembrano pazzi od in preda ad un terribile accesso di furore sanguinario, stringono nelle destre quelle pesanti sciabole, a lama larga, fabbricate con acciaio d’una tempra eccezionale e che gli isolani delle Solú chiamano parangs, armi formidabili che d’un colpo troncano la testa all’uomo piú vigoroso. Corrono come cervi, coi lunghi capelli svolazzanti, coi visi contratti, tenendo le armi alzate. Nessuno può spaventarli: nessuno può arrestarli. Solo una scarica di fucili o la mitraglia d’un pezzo d’artiglieria potrebbe domare quelle tigri.
Chi sono adunque quei formidabili uomini che non temono la morte e che cosí poco numerosi, osano avventurarsi fra le vie d’una città, in mezzo ad una popolazione di circa centocinquantamila anime e una guarnigione di otto diecimila soldati, scelti tra i piú valorosi della guarnigione iberica?… Dei pazzi?… Forse peggio, poiché quei moros, come li chiamano gli spagnuoli, hanno giurato sul Corano di uccidere e uccideranno, dovessero scagliarsi contro una selva di baionette od in mezzo ad una grandine di mitraglia. Non sono dei veri mori, ma degli isolani delle Solú, gli abitanti dell’antico covo dei pirati; dei malesi infine, ma votati alla morte.
Un giorno, quei disgraziati, al pari di tanti altri della loro razza, si erano accorti d’aver dilapidato spensieratamente le loro ricchezze, le loro terre e forse perfino l’ultima loro capanna e che per di piú si erano ingolfati nei debiti. Le leggi del loro paese li avevano lasciati cadere in balia dei loro creditori, i quali potevano ben venderli come schiavi assieme alle mogli ed ai figli.
I panditas, ovvero i preti maomettani, uomini crudeli e fanatici, ne avevano approfittato per sfogare il loro livore contro gl’infedeli, ossia gli spagnuoli. Avevano offerto ai debitori il riscatto delle loro famiglie, ma a condizione che diventassero juramentados, ossia che giurassero solennemente di uccidere il maggior numero di nemici.
Cos’è la morte pel juramentados?… Né piú né meno d’uno di quei molteplici fenomeni dell’esistenza, a cui si assoggettano senza pensarvi sopra un solo secondo.
Ed ecco i debitori diventati juramentados. Un praho solulano qualunque aveva trasportato gli uomini votati alla morte, alla foce del Passig, onde potessero compiere le loro truci gesta piú ferocemente che fosse possibile, in mezzo alla numerosa popolazione della capitale dell’arcipelago e dopo d’averli ubriacati d’oppio fino all’esaltazione, fino alla pazzia, l’equipaggio li aveva scatenati. Quei dodici uomini, che dovevano morire, se volevano salvare le loro famiglie, ma uccidere, si erano scagliati sulla popolazione che si affollava sul quai di Binondo, tracciando in mezzo ad essa un solco sanguinoso; poi, attraverso il borgo si erano gettati sul ponte del Passig dietro ai fuggenti, per entrare nella Ciudad prima che l’allarme si spargesse e si alzassero i ponti levatoi.
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Così si legge nella prima pagina del libro di Emilio Salgari : “Le stragi delle Filippine”. Il juramentados è stato un fenomeno unico nel sud delle Filippine (e forse nel mondo), ma è tuttora contemporaneo pensando a certe forme di terrorismo non solo di matrice islamica.
Nel 12mo secolo, l’Islam raggiunge Manila, rimpiazzando Induismo e Buddismo, per essere poi eclissato dall’arrivo degli Spagnoli e dal Cristianesimo. Solo in alcune isole più a sud dell’Arcipelago, come nel gruppo delle Sulu e in alcune aree di Mindanao, rimarranno popolazioni (in maggioranza indigeni convertiti) fedeli all’Islam.
I loro abitanti, sempre sul piede di guerra, verranno chiamati ‘moros’ dai soldati spagnoli che dovranno affrontarli militarmente in un arco di 300 anni circa. Sarà durante questo conflitto che i moros metteranno in atto forme di attacco-suicida contro i villaggi tribali convertiti al cristianesimo e le truppe spagnole arroccate nelle città sulla costa occidentale di Mindanao..
Considerato come parte della dottrina del jihad, un guerriero moro (o un gruppo di loro Salgari dice 12), sentiva il dovere di irrompere in un villaggio abitato da infedeli, armato di kris o parang (lunga sciabola) con l’intenzione di uccidere il più grande numero di persone che incontrava sulla sua (o loro) corsa affannosa e delirante prima di essere, a sua volta, ucciso.
La parola Juramentado deriva dallo spagnolo ‘juramentar’, giurare. Fra i Tausug di Jolo il termine è ‘parrang sabbil’. Nel suo “Parrang Sabbil: The Suicide Ritual among the Tausugs of Jolo” (1973), Thomas Keiferspiega questo termine preso in prestito dai Malesi (perang sabif). Parrang vuol dire “guerra” e sabil termine arabo che vuol dire “nel sentiero (di Dio)”. Una guerriero che muore nel Sentiero (di Dio) è considerato un martire (shahid) ed è autorizzato alla ricompensa immediata del Paradiso. Il parrang sabil può essere messo in atto da una singola persona o da un gruppo di persone con l’obiettivo di uccidere il più grande numero di nemici o infedeli. Questa pratica è nata nella meta’ del diciottesimo secolo quando gli spagnoli invasero l’isola di Jolo. È continuata durante il periodo americano ed occasionalmente si è ripresentata alla fine della seconda guerra mondiale. Keifer differenzia il parrang sabbil di Jolo da quello malese che è un comportamento violento incontrollabile diretto a caso. Il sabbil di Jolo è un estremo atto di guerra contro forze maggiormente potenti.
Keifer descrive anche il rituale preparatorio del juramentado di Jolo. Innanzitutto la necessità di assicurare che il corpo del sabbil fosse preparato correttamente per entrare nella vita dell’aldilà dopo la morte. Per esempio il corpo veniva lavato da preti islamici prima dell’azione suicida: tre volte con il corpo rivolto ad est , tre volte con il corpo rivolto ad ovest e infine altre tre volte sulla schiena. La sporcizia rimossa da tutti gli orifizi corporei per assicurare la purezza completa. La testa completamente rasata (per Salgari invece avevano i capelli lunghi), le sopracciglie tolte e le unghie ben tagliate. Poi il futuro martire indossava una tunica bianca. Come è comune in altri rituali islamici, questa purezza non doveva essere contaminata, per esempio, da un contatto fisico con le donne, da una eliminazione corporea o da un atto ritenuto volgare e sporco. Morire nel Sentiero di Dio legava indissolubilmente due valori opposti, come vita e morte, in una sintesi altamente simbolica. Senza possibilità di negoziato.
L’Islam condanna il suicidio e l’inferno accoglie chi lo commette. Tuttavia per i juramentados morire nel Sentiero (di Dio) non poteva essere considerato un peccato, ma un modo supremo per meritare la salvezza eterna. Cioè il suicidio in se rimaneva peccato, ma nel jihad veniva all’istante perdonato ed Dio comunque sarebbe rimasto contento della eliminazione fisica di nemici impuri.
In realtà, si può supporre, che una volta giurato di fronte a parenti e autorità islamiche di compiere questo atto, il suicida faceva una promessa finale senza possibilità di ritorno. Il giuramento incatenava il juramentado alla morte. Quello che era stato solennemente promesso a Dio, in pubblico, non poteva essere ripudiato. Per Salgari era anche una forma di riscatto da un grande debito o colpa che il futuro suicida aveva contratto con il resto della comunità islamica. La sua vita era diventata una disgrazia anche per il suo villaggio e per la sua famiglia. Per evitare la condanna a morte della legge islamica, cioè la pena infernale e una ulteriore vergogna per altri del suo clan, egli si riscattava in questo modo: suicida, uccidendo il maggior numero di infedeli in nome di Dio.
Non si sa se Salgari vedesse in questi ‘guerrieri-suicidi’, uomini in difficoltà, manipolati da dottrine fanatiche e crudeli, il proprio destino. Il padre suicida, la moglie morta pazza in un orribile manicomio, la famiglia nella miseria e soprattutto sempre oppresso dai debiti ‘mentre altri si arricchivano con i suoi libri’. Cosi’ a 49 anni si sarebbe tolto la vita. Come facevano i samurai: con il seppuku dopo aver ‘ucciso’ altri, ma solo sulla carta con penna e inchiostro.
La vera mente (per Salgari ) erano comunque coloro che per odio verso i nemici (o troppo amore per la propria religione, ma anche per il proprio paese) riuscivano a trasformare un povero fratello musulmano in un juramentado, non solo lavando il suo corpo ma anche la sua mente. Del resto un capo religioso o prete islamico non si sarebbe mai offerto come suicida. Come interprete ufficiale di una dottrina, che non prevede omicidio e suicidio, banditi dal Corano, all’ultimo momento avrebbe dubitato e il dubbio lo avrebbe reso ‘codardo’ e spinto inesorabilmente all’inferno.
Per gli ‘innocenti’ uccisi non c’era sentimento. La loro colpa era di non essere musulmani. In generale, tuttavia, gli stessi juramentados tendevano a pensare che siccome i cristiani o non-ancora-musulmani venivano uccisi da un ‘santo’ guerriero, molto probabilmente Dio aveva già in mente di risparmiare a questi, comunque infedeli, le pene infernali. In questa maniera anche le vittime potevano godere, sebbene in modo inferiore, della vita in Paradiso.
Bisogna infine dire che i juramentados (ancora oggi è diffusa questa pratica uccidere-in-suicidio) dovevano per forza auto-considerarsi santi-martiri già in paradiso con vergini e angeli al loro fianco prima di gettarsi nella mischia: il dubbio, come detto sopra, li avrebbe condannati. Così dovevano per forza considerare gli altri, anche musulmani, come creature inferiori e destinate a vivere in un mondo corruttibile. In un certo senso prima di auto-terminarsi in nome di Dio dovevano auto-elevarsi non solo al di sopra del mondo infedele, ma anche dello stesso Islam.
Salgari descrive questa figura sucida e terrificante nel libro “Le stragi delle Filippine” (1897) (a cui seguira’ nel 1901 “Il fiore delle perle”). Nel romanzo i juramentados vengono tutti uccisi nelle prime pagine e non sarranno piu’ menzionati. Si continua a raccontare invece quello che accade negli anni 1896-97, attraverso le gesta di due ribelli, il meticcio Romero Ruiz e il cinese Hang-Tu. Nel 1896 era stato fucilato José Rizal, leader progressista filippino. Poi la fantasia di Salgari si sposta alla Tortuga e al Corsaro Nero, appunto. La storia filippina invece prendera’ una insolita direzione. Nel 1898 la rivolta si riaccende fino alla proclamazione della indipendenza (2 giugno 1898): primo presidente, Emilio Aguinaldo. Duro’ poco: a Parigi del 1899 la Spagna vende agli Stati Uniti le Filippine e il 23 marzo 1901 Aguinaldo, catturato, non puo’ che giurare fedeltà ai nuovi arrivati. I moros armati invece, a tutt’oggi, continuano le loro scorribande, nel tentativo di far risorgere l’antico sultanato delle Sulu.
(Lucius)