Per molti studiosi l’idea di Mindanao come Land of Promise (Terra Promessa) proviene dal mito della frontiera portato dagli americani dopo il loro arrivo nel 1902, con lo slogan: “Young Man, Go South!” (Giovanotto, vai a sud!). In quegli anni, di fronte a questa immensa isola disabitata, furono proposte diverse soluzioni. General Wood, adirittura avanzò l’ipotesi, un po’ strana direi: “ for immigration of white European workers who would homestead and be granted American citizenship once settled in Mindanao. The Mindanao Herald even reported that Wood had persuaded the Roman Catholic Archbishop of Manila, Jeremiah Harty to approach the Italian government about encouraging Italian immigrants to Mindanao to solve the labour problems”. Migranti italiani in Mindanao? Beh! Così gli americani ci vedevano: emigranti!
Ma ben presto altri misero gli occhi su Mindanao se nel 1926 circa il 30% dei 100.000 ettari di terreno coltivati nell’area di Davao erano controllati da migranti giapponesi. Sì, nipponici, a quei tempi non ancora nemici degli americani. Così nel 1939, nel Commonwealth Act No. 441, si parla di mandare l’eccesso di popolazione di Luzon e Visayas, in Mindanao (12 ettari per famiglia con aiuti finanziari) per contrastare la presenza del sol levante.
Poi la guerra e i giapponesi rafforzano la loro presenza in Mindanao e se pur nemici degli americani rimasero d’accordo nel mantenere il termine “Terra Promessa”. La Gazzetta Ufficiale 1943 p. 532 vol. 2, No. 5 parla della collaborazione Giappone Filippine in Mindanao in questa “Land of Promise” ora maggiormente ricca di piantagioni di cotone e di frutta esotica da esportare verso il mercato nipponico.
Lo slang “Young Man, Go South!” riemerge con il ritorno degli americani. Si parla, ad esempio, dei soldati americani che nel dopoguerra marciavano in parata nella città di Cebu con enormi gambi di granoturco per convincere i visaya ad emigrare in Mindanao the “Land of Promise”, appunto.
“Terra Promessa!”, quante volte abbiamo usato questo termine alla fine degli anni Settanta. Tuttavia, mentre per noi ancora giovanotti (italiani per l’appunto ma missionari) sembrava quasi ci fosse una sorta di promessa per il popolo filippino simile a quella biblica di Dio verso il popolo di Israele, quelle parole dovevano aver già perso, nei cuori dei filippini, la loro carica romantica e emotiva. Infatti, per gli ultimi migranti arrivati rimanevano solo terre molto difficili da raggiungere perché in montagna o sassose, le terre più fertili e facili da lavorare erano già state divise, molto prima, tra i vecchi coloni, poi tra i ricchi proprietari terrieri, infine tra le compagnie di legname e della gomma. Fu così che agli inizi degli anni Ottanta si cominciò a parlare, invece, di “promesse non mantenute”. Proprio mentre iniziavano le prime grandi migrazioni di lavoratori filippini all’estero, in America soprattutto, ma anche in Giappone.
Luciano