di Franco Cagnasso
Accolgo volentieri l’invito di padre Piero (Gheddo) a scrivere qualcosa sulla mia “esperienza di dialogo con i membri di altre religioni”, in continuità con il mio libro “Il Vangelo del Dialogo” (EDB, Bologna, 2013), che ha come sottotitolo sottotitolo: “Riflessioni di un missionario a 50 anni dal Concilio”. Ecco come ho cercato di “dialogare” con membri di altre religioni, soprattutto musulmani.
Inizio con il mio primo tentativo. Ero giovane prete, arrivato da poco in Bangladesh (1978), e volevo scoprire se era possibile quel “dialogo” di cui tanto si parlava. Con altri due giovani missionari proponemmo al Vescovo di stabilirci a Bogra, importante città di circa cento mila abitanti, dove la presenza cristiana si riduceva a pochissime unità. Non avevamo un progetto preciso: volevamo “stare” e, giorno dopo giorno, vedere, stabilire relazioni di amicizia e rispetto, conoscenza e – appunto – dialogo. P. Gianni e p. Achille si orientarono sul servizio. Gianni frequentava aree povere facendo amicizia e offrendo nozioni di medicina preventiva, nutrizione, pronto soccorso; Achille aveva letteralmente “scovato” famiglie provate dalla presenza di membri con disabilità, creando una piccola rete di aiuto reciproco, e orientando su metodi semplici per far compiere qualche progresso ai disabili. Tutto ciò con persone di religione islamica, e qualche indù, ed era un’occasione per conoscersi, stimarsi, superare pregiudizi.
Io ero lo “specialista” del dialogo, e dovevo mettermi in contatto con centri religiosi: moschee e santuari. Ma non riuscii a combinare nulla, se non qualche incontro impacciato e formale, attraversato dal sospetto: che cosa vuole questo straniero che si dice interessato a conoscerci, e perché è venuto? Capii che il dialogo come “professione” non faceva per me, e che partire da ciò per cui sappiamo di essere diversi – la religione – non porta lontano.
Anni dopo, un missionario americano, P. Bob, parlando della sua esperienza mi disse drasticamente: “Incominciare discutendo su Dio, è da matti”. P. Bob, ormai ultra settantenne, ha lo scopo di realizzare un primo contatto fra un popolo musulmano e un cristiano – lui stesso. Ogni tre anni cambia sede, va in una località dove non ci sono cristiani, abita un locale povero e semplice, fa tutto da sé, va in bicicletta a trovare ammalati e spendere tempo con loro, in qualche caso li aiuta accompagnandoli in ospedale. Anche lui è accolto con sospetto (come potrebbe essere diversamente?), ma presto la curiosità prevale, e poi entra la simpatia, e anche la riconoscenza. Non da parte di tutti, ovviamente; ma quando si trasferisce può dire che qualcuno ora conosce un poco Gesù, perché per tre anni, ogni volta che gli chiedono: “Tu chi sei? Che cosa fai?” risponde: “Sono un missionario cristiano, e cerco di fare come il mio Profeta Gesù, che passò facendo del bene (cfr. Atti degli Apostoli)”. Lo accettano così, lo ammirano, qualcuno lo aiuta.
E’ poco? Pochissimo. Ma è qualcosa, una semina da fare con fede, lasciando perdere il pallottoliere per contare i risultati. Dopo il mio fallimento a Bogra, ho sempre operato all’interno della comunità cristiana, ma cercando di tenere aperti gli occhi e cogliere occasioni d’incontro con persone di altre religioni. Ricordo con simpatia un piccolo gruppo che frequentavo a Dhaka, formato da qualche prete e qualche imam, e da professionisti laici praticanti, musulmani e cristiani. Ogni due mesi condividevamo riflessioni su temi vari: il perdono, i poveri, la fede, la preghiera… Si percepiva un poco la religiosità nel quotidiano, il significato della fede per la vita di ciascuno. C’era desiderio di conoscersi, qualcuno esprimeva il bisogno di uscire dagli schemi mentali chiusi in cui era cresciuto. C’era anche chi sperava, alla fine, di riuscire a convertire gli altri alla propria religione; era considerato un desiderio legittimo, purché accompagnato dall’ascolto sincero e rispettoso dell’altro.
Guidato dall’esperienza e dall’entusiasmo di Fratel Guillaume, da tanti anni in Bangladesh con la comunità di Taizè, ho partecipato ad incontri più numerosi e vari fra cristiani e membri di altre religioni, nelle rispettive sedi: semplicemente primi contatti di reciproca conoscenza. Abbiamo incontrato buddisti, musulmani sufi, ahmadyia, indù di diverse correnti, ba’hai, sciiti, sunniti. La nostra proposta di incontro in qualche caso è stata rifiutata come inutile, in molti casi abbiamo gustato cordialità e persino affetto, in altri si è rotto il ghiaccio: ghiaccio appunto, ma con qualche crepa… Ci siamo anche trovati all’Università statale, facoltà di scienze religiose, da dove poi sono stati organizzati incontri fra gruppi di giovani e di donne, a trattare temi comuni.
L’esperienza più bella è spesso quella del rapporto personale, nato nelle circostanze più varie. Pochi giorni fa, nella condivisione al termine del ritiro annuale dei missionari del PIME in Bangladesh, uno di noi che ha sempre operato fra gli aborigeni, con la gioia di accompagnarne molti al battesimo, diceva che nella sua vita ha “sentito” la paternità come affetto, sostegno, accoglienza e dono non solo dal suo padre naturale, ma anche da due amici musulmani conosciuti in Bangladesh.
Il dialogo non è tanto, o non è solo qualcosa che si fa, ma un atteggiamento interiore, una “forma” della mente e del cuore, che ti fa stare accanto all’altro a partire dalla sua umanità. Ho sentito più volte musulmani affermare: siamo diversi, ma il nostro sangue è rosso, come il vostro. Ricordo con commozione un colloquio fra genitori, musulmani e indù, di bambini con gravi disabilità, i quali spiegavano che la scoperta della comune sofferenza dei e per i loro figli aveva creato fra loro una fraternità che altrimenti non avrebbero mai sperimentato. I musulmani poveri che ospitiamo nel nostro piccolissimo Centro di accoglienza per ammalati, si aprono ad un rapporto di fiducia, che scoprono possibile anche con noi cristiani, e spesso sono loro a mostrare più riconoscenza.
Il beato Charles de Foucauld, vissuto ben prima che si parlasse del dialogo, aveva un profondo desiderio di accompagnare i musulmani a incontrare Cristo, ma aveva intuito che a questo stadio l’incontro deve avvenire “a Nazareth”, quando ancora Gesù non aveva iniziato predicazione e opere, eppure viveva la sua ricchezza di Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio – che emergerà poi nella breve stagione della “vita pubblica” – dentro la semplicità di rapporti quotidiani. Possibile che i trent’anni di Nazareth siano stati “tempi morti” perché Gesù ancora non predicava e annunciava?
Ho un amico buddista che, nell’ostello che dirige, ha messo un’immagine di Gesù e una statuetta della Madonna, dove i giovani portano doni e pregano, come fanno davanti al piccolo altare di Buddha. Lo ascolto quando mi parla dei suoi ritiri di meditazione in una pagoda, e lui s’illumina quando gli racconto storie del Vangelo. E’ dialogo questo? O annuncio? O tempo perso…?
Ecco, dico “tempo perso” perché qualcuno giustamente si chiede dove sono i risultati prodotti da questa posizione “dialogante”, e io non so rispondere. Ha scritto padre Gheddo nel suo Blog sul dialogo che, se vogliamo essere concreti, l’alternativa al dialogo è il conflitto. Nella storia si è tentato molte migliaia di volte di risolvere i problemi con la guerra, di far cambiare gli altri con la forza. Certo che io, “povero untorello”, non cambio il corso della storia né risolvo il problema del terrorismo. Che è un problema grave proprio perché il terrorista rifiuta ogni dialogo e vede nell’altro solo il nemico. Erano così i “brigatisti rossi” italiani, sono così i terroristi odierni di matrice islamica.
Qualcuno chiede con rabbia: “Dove sono i musulmani “moderati”? perché non si fanno sentire?” Domanda legittima, ma la vigorosa e numerosa opposizione al terrorismo esiste, e consiste nella reazione e resistenza presente nella vita civile di quel grande magma che è il mondo islamico. L’informazione che l’occidente ci dà, narra di fatti orribili, ma raramente s’accorge di ciò che con fatica avviene nel quotidiano di questo mondo. Qui in Bangladesh, fondamentalismo e terrorismo sembrano purtroppo in fase di crescita. Chi cerca di contrastarli? I cristiani? Gli occidentali? Sono musulmani quelli che subiscono e fronteggiano, finora con efficacia, questa minaccia che nasce da una mentalità e da una visione religiosa che ritengono aberrante, e che temono. Certo, argomentando contro il terrorismo, non mancano di sottolineare fatti e atteggiamenti che forniscono ad esso dei pretesti, molti dei quali sono responsabilità dell’occidente. A noi questo dà fastidio, ma hanno sempre torto? O non sarebbe meglio ascoltarli con attenzione?
Ecco, ascoltarsi! L’anno scorso, in Italia, ho assistito a qualche dibattito televisivo. In pochi minuti ero preso dall’angoscia. Quale che fosse il tema, tutti urlavano le loro certezze, nessuno voleva ascoltare; non si capiva assolutamente nulla, mentre crescevano rabbia e ostilità. A noi piace ascoltare chi dice cose che riteniamo giuste. Mi sembra normale. Ma se ci mettiamo in ascolto anche di chi la pensa diversamente, spesso scopriamo che pure l’altro ha le sue ragioni; possiamo accettarle oppure no, ma, conoscendole, potremo almeno tenerne conto.
La nostra fede non va nascosta, anzi deve essere evidente dalla nostra vita, azioni, parole; non deve essere semplicemente urlata senza tener conto dell’altro. S. Pietro ha scritto: “Non sgomentatevi per paura di loro, e non turbatevi, ma adorate il Signore Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza…” (I Pt 4,15-16a) Ecco, potrei ridurre a questo la mia modestissima esperienza: cercare di vivere il Vangelo con speranza e amore, e di entrare in rapporto – se possibile – con tutti, senza lasciarmi dominare dalla paura; con umiltà, rispetto e onestà.
P. Franco Cagnasso, Dhaka