Era il tardo pomeriggio del 20 Settembre 1972 quando arrivai a piedi e infangato alla casa di Ruben. Era arroccata sullo sperone di una montagna e sua moglie, Josefina, era la catechista di San Isidro, il barrio a un chilometro dall’omonimo laghetto dove sorge la scuola elementare. Il cane abbaiò e la piccola e magra donna sbucò fuori dalla porta della casa di assi di legno, seguita da diversi bambini che si affrettarono a chiedere la mia mano destra per portarla alla fronte. Un gesto di rispetto verso le persone più anziane o ritenute importanti. Mi sedetti pesantemente sulla panca della veranda dove di solito si siedono gli ospiti e da dove si aveva una magnifica vista sulla valle e la rimanente foresta. La mia barba biancastra gocciolava di sudore. Ero stanco ma cercavo di nasconderlo.

Anche in Birmania non ero mai stato un camminatore, ma mi ero adattato al sole cocente, alla pioggia e al fango. Seduto, sudato e stanco, con la voce rauca chiesi a Josefina un bicchier d’acqua, come Gesù alla Samaritana. Con signorilità, cercando di non ansimare. La donna rientrò in casa portando il mio zaino nella piccola e unica stanza, in cui avrei dovuto passare la notte. Dopo un po’ uscì con un grosso bicchiere colmo di caffè bollente. Era sempre così in qualsiasi casa che entravo. Chiedevo acqua e mi portavano il caffè. Rispettai la sua generosità e mentre aspettavo che la bevanda si raffreddasse ascoltai le ultime notizie. Dal volto un po’ preoccupato di Josefina capii che era successo qualcosa. “Beh, sì! Alcuni armati, musulmani, sono passati qui ieri notte, si sono seduti in veranda e ci hanno chiesto del cibo, poi se ne sono andati”. “Vi hanno minacciato?”, domandai. “No! Però, quando se ne sono andati, hanno fatto capire che ritorneranno”. “E voi cosa farete?”, aggiunsi. “Alcuni di noi stanno pensando di andarsene via…..lontano da qui. Ma siamo ancora indecisi”. “Non dovete avere paura!”, dissi cercando di sdrammatizzare. “Già, paura”, continuò la donna, “E’ difficile avere fiducia di musulmani armati”.

Presi tempo. Non sapevo cosa rispondere. Cominciai a sorseggiare il caffè, cercando di non mandare giù la poltiglia nerastra che si era depositata sul fondo del bicchiere. Sorseggiavo e cercavo le parole per continuare il discorso. Ma non mi veniva in mente niente di concreto. Solo alcune idee della chiesa “conciliatrice” e conciliare. Come articolarle in un modo chiaro e semplice? I vescovi, persuasi che le differenze umane e religiose non si possono evitare, avevano discusso molto circa il dialogo ecumenico con altre sette e religioni. Avevano detto e scritto che in queste ci sono valori umani e spirituali che si sviluppano parallelamente con quelli cristiani. In altre parole, per i vescovi, la loro conversione non era la prima cosa da cercare, e invitavano ad allargare la visione cristiana, alla comprensione delle culture, ai loro riti religiosi e civili con pazienza, tolleranza e studio. Era una novità per me.

La mia educazione era pre-conciliare. I missionari partivano per convertire con parole poi tradotte in opere di bene. E basta! Ma ora dalle anime si passava agli uomini, dai sacramenti alla comunità. Cosa voleva dire? Perdonare o sopportare? Come si fa a non perdere la fiducia in sé stessi, in ciò che si crede, se in altre credenze c’è lo stesso Dio e la stessa redenzione? Rimanevo perplesso. Mi avevano insegnato a riportare le anime dei ‘pagani’ nello stesso ovile, sotto la protezione di un’unica chiesa governata dal Papa. Mi sentivo prete e mi era difficile capire che un valore diverso dal mio, seppure religioso, non fosse più oggetto di conversione. Come se Cristo e i Diritti Umani fossero lo stesso Vangelo? Il progresso dell’umanità già conversione del cuore? Il socialismo birmano pari alla fede cristiana? Umm! Cercavo di capire, di aprire la mia mente alle nuove idee. Josefina, però, aspettava un consiglio, possibilmente concreto.

Pensavo e non mi veniva in mente niente . Le idee del Concilio erano come un puzzle di migliaia di pezzi, e non avevo la minima idea di come metterli insieme. All’improvviso mi sentivo ridicolo. Un po’ come andare in giro di giorno con una candela accesa per illuminare ogni mio passo. Uno si avvicina e ti dice: “Sveglia! È passato, è mezzogiorno!”. Sui monti di Sibuco si stava facendo sera, i vescovi erano lontani e solo Dio sorvegliava dei figli e figlie in difficoltà. Buttai giù altro caffè e dissi la cosa più banale che potevo dire. “Ah, non preoccuparti! In fondo i musulmani sono nostri cugini. Un po’ strani, ma sempre credenti in Dio!”. “Sarà!”, disse lei, “Ma per me è meglio che se ne stiano lontani e poi, se sono così cugini, perché non ci salutano mai per primo, e ci dicono alle spalle che adoriamo il maiale, e che tutti quelli che non sono nell’Islam sono atei e non si salveranno?”. In fondo parlava per esperienza.

Eppure una convivenza doveva pur essere possibile? Cambiai argomento e domandai se avesse continuato a insegnare catechismo nella scuola elementare. “Fino alla settimana scorsa. Poi le maestre mi hanno detto che non era più opportuno, visto che tra i bambini ci sono anche figli di genitori appartenenti ad altre sette religiose”. Una grana in più, le sette religiose e protestanti. Dovetti pensare cosa dire alle maestre per convincerle. Magari alzando un po’ la voce. Ruben rientrò dal lavoro dei campi la sera tardi. Legò il bufalo vicino alla pozza di fango. L’animale vi si immerse soffiando. Le mosche residenti sulla sua testa per qualche attimo rimasero sfollate in aria. Ritornarono subito quando riemerse. Ruben mi domandò per l’ennesima volta, da quando ci eravamo conosciuti, se in America c’erano i contadini come lui. Dissi “Eccome! E sono grandi e grassi!”

Quella notte non riuscii a dormire. Mi giravo e rigiravo sulla stuoia sotto una enorme zanzariera, sotto la quale dormivano anche i figli più piccoli di Ruben e Josefina. Loro due invece si erano sistemati con i figli più grandi sul pavimento di legno, vicino alla porta d’entrata. Ogni tanto mi arrivavano in faccia i piedi o le mani dei bambini che nel sonno si spostavano qua e là nello spazio attorno a me. Sopra, su un altarino dove c’era la statua di Santo Nino, era accesa una piccola lampada a petrolio, ricavata da un vecchio bicchiere di vetro pieno a metà di olio di cocco, nel quale galleggiava uno stoppino racchiuso in alto da un tubicino di latta conficcato al centro di un pezzo di legno di balsa. Era una mistica compagnia. Veniva lasciata accesa tutte le notti. Il suo fumo aveva annerito completamente l’angolo del tetto fatto di assi di legno. Aggirando il filo di fumo nero, minuscole farfalline bianche si gettavano a capofitto nella fiamma tremolante. Attrazione fatale. Guardavo e pensavo alla gente che viveva su quei monti. Liberi ma costretti ad affrontare una scottante realtà. Mi addormentai che erano le quattro del mattino.

Alle cinque del mattino la mistura di scariche elettrostatiche e notizie della radio a pile di Ruben mi svegliò di botto. All’inizio non ci feci caso, anzi, mi dava fastidio. Poi mi concentrai. Le notizie non erano le solite. C’era un’atmosfera di emergenza. C’era la Legge Marziale. Con la famiglia radunata ascoltai senza dire una parola. Eravamo in disaccordo. Josefina ne era felice. Così almeno manderanno soldati nel barrio, ripeteva. Io invece ero perplesso. Voleva dire rendere più arroventato il clima politico: conflitti, arresti, limitazioni. L’avevo già vissuto in Birmania, ma non ero preparato a riviverlo di nuovo in paese per giunta cattolico da quattro secoli, da quando il condottiero Ruy Lopez Villalobos, arrivò dal Messico nel 1542 . Guardai i bambini attorno a me. Era colazione e prendevano con le mani, riso condito con una pasta di pesce crudo chiamato ‘ginamos’. I visi erano sereni e gli sguardi dolci. Decisi che non erano spagnoli. Che il presidente Marcos a suo modo cercava di tenere assieme cocci di terracotta rigettati dal continente asiatico e scaricati nell’oceano Pacifico. Un bollente calderone fatto di conflitti sparsi tra settemila isole.

Quando, più tardi, mi presentai alle maestre della piccola scuola pubblica vicino al laghetto, ero nervoso. Iniziai subito ad alta voce: “Non capisco perché non possiamo insegnare religione!”, dissi. “E’ per evitare litigi”, rispose con calma la più anziana. “Litigi?” dissi io e lei: “Mah, come sa un buon numero di bambini appartiene ad altre sette religiose. Alcuni genitori non vogliono che si insegni il catechismo cattolico”. “Ridicolo! Possono sempre dire ai loro figli di non partecipare alla lezione”. “Già! Tuttavia, come dirlo, i bambini fanno amicizia tra loro e l’ora di religione è più che altro un periodo di gioco. E quindi rimangono assieme”. “Vede?!” esclamai ” Per i bambini non ci sono problemi e divisioni. E poi, scusi, non mi pare che Josefina insegni cose cattive”. “Non so cosa dirle. Questa è una cosa seria e concreta. L’ora di religione è solo facoltativa. Se crea conflitto mi pare anche giusto sospenderla”. Cercai di proporre altre possibilità. Inutilmente. Lasciai le maestre dicendo di ripensarci.

Allontanandomi lentamente verso la cappella dove stavano preparando l’altare per la messa, sbirciavo indietro. Speravo che facessero uno strappo alla regola e mandassero qualche bambino in chiesa. Il rito era ancora incomprensibile per loro. Come spiegarlo se non venivano a messa? Mi rimaneva difficile capire come quei bambini potessero maturare una fede più adulta e intellettuale senza regolari insegnamenti. Dissi a Josefina di insegnare catechismo nella cappella di sabato e domenica, e di insistere. Durante la messa cercai di spiegare ai fedeli cosa era la Legge Marziale in un paese a maggioranza cattolica. Domandando qua e là capii che la gente ne sapeva più di me. Il dibattito che ne seguì prima della consacrazione fu molto acceso. Rimasi ad ascoltare e la “predica” divenne una animata discussione dove ognuno voleva dire la sua. Spiegare e scrutare nei dubbi degli altri. Nel pomeriggio proseguii verso un’altra cappella e dopo due giorni in un’altra ancora. Sempre camminando. Da solo e con una grana in più: Legge Marziale! Cominciò a piovere. Sarei ritornato a San Isidro dopo tre mesi con la stessa voglia di capire se il verbo “conciliare” si poteva ancora pronunciare.

Da pagine sciolte raccolte a Sibuco e ritrovate da p. Nicola, 1999